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All’VIII Congresso del Partito comunista italiano, tenutosi a Roma dall’8 al 14 dicembre 1956, il delegato di Cuneo Antonio Giolitti denuncia l’impossibilità di continuare a definire legittimo, democratico e socialista ‘un governo come quello contro cui è insorto il popolo di Budapest’, definendo ingiustificabile l’intervento sovietico ‘in base ai principi del socialismo’. Sul finire del luglio successivo Giolitti, date le reazioni del Pci alle sue affermazioni, sente che i margini di discussione all’interno del Partito sono diventati troppo ristretti e spedisce la sua lettera di dimissioni, pregando che sia pubblicata entro il 24 luglio.
Seppure molto sensibile alle posizioni di Giolitti, Bruno Trentin si dichiara nettamente contrario alla sua decisione di abbandonare il Pci, ritenuta un passo indietro rispetto a una battaglia politica che è invece possibile sostenere all’interno del partito.
“Ti scrivo ora, un po’ confusamente, le prime cose che sento di doverti dire, ancora sotto l’influsso del dolore che la tua decisione ha provocato in me (…) - scrive a caldo Trentin il 23 luglio -. Mi trovo così ancora smarrito e confuso, fra la tristezza, la consapevolezza che la tua scelta è stata dettata da sentimenti nobili e comunque rispettabili e una sorta di rabbia - vedi, ti parlo a cuore aperto - per il significato politico che la tua scelta viene a prendere. (…) Lo sapevi; non posso condividere la tua decisione: né per il suo contenuto sostanziale (la sfiducia nelle possibilità intrinseche di rinnovamento del partito) né per il quadro politico in cui esso nasce (per cui essa si profila in paradossale contrasto con i recenti avvenimenti dell’Urss e le loro storiche, inevitabili, conseguenze) né per le conclusioni che essa comporta (…). Su di te, bene e male, ricadeva in buona parte, il peso di una battaglia conseguente per il rinnovamento del partito”.
“Le tue dimissioni - prosegue nella sua lettera Trentin - non comportano quindi soltanto un declino di questa responsabilità. Esse vengono ad affermare una cosa non vera e non accettabile: la impossibilità di assumerle nell’ambito del partito (…). Antonio, so che capirai come la passione polemica, la rabbia che ho lasciato esprimere in questa lettera, sono proprio la migliore e più dura testimonianza dei sentimenti che mi legano a te. Tu conosci, nel mio comportamento, la stima e l’amicizia che io provo nei tuoi confronti. Sono sicuro quindi che capirai come soltanto con questa franchezza, con questa libera testimonianza del mio dolore e del mio dissenso, può rimanere salda la nostra amicizia e le nostre future possibilità di autentico incontro, nelle quali non dispererò mai”.
Trentin torna a scrivere a Giolitti il 9 agosto di quel 1957: “Caro Antonio, domani parto per la montagna, con la speranza di riposarmi un po’. Prima di lasciare Roma, voglio mandarti il segno della mia presenza e del mio immutato affetto. Comprendo perfettamente le ragioni del tuo silenzio. Voglio solo sperare che tu abbia interpretato la mia lettera per quello che era. Oggi, è chiaro, parlerei con te in ben altro modo. Essa rimane una testimonianza: di un momento e di una reazione, che allora dovevo esprimerti per gli stessi impegni di lealtà che non sono mai venuti meno fra noi”.
Due giorni prima, il 7 agosto, l’Unità pubblicava un’altra, notissima, lettera di dimissioni: quella di Italo Calvino.
“Cari compagni - scriveva nella prosa scorrevole e incisiva che contraddistingue le sue opere l’autore - devo comunicarvi la mia decisione ponderata e dolorosa di dimettermi dal Partito. Ho rinnovato la tessera del ’57 manifestando dissenso; questo dissenso non si è affatto attenuato col passare dei mesi, tanto che mi sono astenuto da ogni attività di Partito e dalla collaborazione alla sua stampa, perché ogni mio atto politico non avrebbe potuto non portare traccia del mio dissenso, e cioè costituire una nuova infrazione disciplinare dopo quelle già rimproveratemi. Insieme a molti compagni, avevo auspicato che il Partito comunista italiano si mettesse alla testa del rinnovamento internazionale del comunismo, condannando metodi di esercizio del potere rivelatisi fallimentari e antipopolari, dando slancio all’iniziativa dal basso in tutti i campi, gettando le basi per una nuova unità di tutti i lavoratori, e in questo fervore creativo ritrovasse il vigore rivoluzionario e il mordente sulle masse. Sono stato tra chi sosteneva che solo uno slancio morale impetuoso e univoco potesse fare del 1956 veramente l’anno del 'rinnovamento e rafforzamento' del Partito, in un momento in cui dalle più diverse parti del mondo comunista ci venivano appelli al coraggio e alla chiarezza. Invece la via seguita dal Pci, nella preparazione e in seguito all’VIII Congresso, attenuando i propositi rinnovatori in un sostanziale conservatorismo, ponendo l’accento sulla lotta contro i cosiddetti 'revisionisti' anziché su quella contro i dogmatici, m’è apparsa (soprattutto da parte dei nostri dirigenti più giovani e nei quali riponevamo più speranze) come la rinuncia ad una grande occasione storica. In seguito ho sperato che il tradizionale centrismo della nostra Segreteria garantisse il diritto di cittadinanza nel Partito alle posizioni dei rinnovatori, come lo garantiva di fatto ai più radicali dogmatici. La linea seguita in questi mesi fino all’ultima riunione del Comitato centrale (particolarmente grave perché il momento poteva essere nuovamente propizio a un passo avanti, e nulla si è mosso) e la drastica e sprezzante stroncatura del lavoro di ricerca di Antonio Giolitti (cui mi lega una profonda stima e una fraterna solidarietà) mi hanno tolto ogni residua speranza di poter svolgere una funzione utile pur ai margini del Partito”.
“Ho fiducia nel movimento storico che porterà il socialismo, da una forma d’organizzazione accentrata e autoritaria, a forme di democrazia diretta e di partecipazione funzionale della classe lavoratrice e degli intellettuali alla direzione politica ed economica della società. È su questa via - proseguiva lo scrittore - che il movimento comunista mondiale è spinto a risolvere i suoi problemi, con o senza soluzioni di continuità a seconda delle capacità di rinnovamento dei partiti comunisti dei vari paesi. È in questo senso che intendo continuare a volgere i miei orientamenti politici. (...) Sono consapevole di quanto il Partito ha contato nella mia vita: vi sono entrato a vent’anni, nel cuore della lotta armata di liberazione; ho vissuto come comunista gran parte della mia formazione culturale e letteraria; sono diventato scrittore sulle colonne della stampa di Partito; ho avuto modo di conoscere la vita del Partito a tutti i livelli, dalla base al vertice, sia pure con una partecipazione discontinua e talora con riserve e polemiche, ma sempre traendone preziose esperienze morali e umane; ho vissuto sempre (e non solo dal XX Congresso) la pena di chi soffre gli errori del proprio campo, ma avendo costantemente fiducia nella storia; non ho mai creduto (neanche nel primo zelo del neofita) che la letteratura fosse quella triste cosa che molti nel Partito predicavano, e proprio la povertà della letteratura ufficiale del comunismo m’è stata di sprone a cercar di dare al mio lavoro di scrittore il segno della felicità creativa; credo d’esser sempre riuscito ad essere, dentro il Partito, un uomo libero. Che questo mio atteggiamento non subirà mutamenti fuori dal Partito, può esser garantito dai compagni che meglio mi conoscono, e sanno quanto io tenga a esser fedele a me stesso, e privo di animosità e di rancori. Vorrei che, considerata la ponderatezza di queste mie dimissioni, mi si evitassero i colloqui previsti dallo Statuto, che non farebbero che incrinare la serenità di questo commiato. Vi chiedo di pubblicare questa lettera su l’Unità perché il mio atteggiamento sia chiaro ai compagni, agli amici, agli avversari. Vorrei rivolgere un saluto ai compagni che nei loro settori di lavoro lottano per affermare giusti principi, e anche a quelli più lontani dalle mie posizioni che rispetto come combattenti anziani e valorosi e al cui rispetto, nonostante le opinioni diverse, tengo immensamente; e a tutti i compagni lavoratori, alla parte migliore del popolo italiano, dei quali continuerò a considerarmi il compagno”.