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Il 26 luglio 1943, il giorno dopo le dimissioni di Benito Mussolini da capo del governo, la famiglia Cervi offre a tutto il paese di Gattatico un pranzo a base di pasta per festeggiare. Papà Cervi guarda i suoi ragazzi e pensa: “Beati loro, sono giovani e vivranno in democrazia, vedranno lo Stato del popolo. Io sono vecchio e per me questa è l’ultima domenica”.
Da lì a cinque mesi saranno invece i suoi sette ragazzi a perdere la vita, fucilati dai fascisti ed esposti alle rappresaglie delle camicie nere probabilmente anche per colpa di quella pastasciutta più potente di un manifesto politico.
Arrestati nella notte tra il 24 e il 25 novembre (più correttamente alle prime ore del mattino del 25) e incarcerati nel carcere politico dei Servi a Reggio Emilia rimarranno prigionieri fino alla mattina del 28 dicembre, quando saranno fucilati per rappresaglia.
Papà Cervi
Il papà Alcide, loro compagno di cella fino a quel 28 dicembre 1943, rimarrà prigioniero fino al gennaio dell’anno seguente, quando il carcere verrà bombardato dagli alleati. Tornato a casa, rimarrà ignaro di quello che era accaduto ai suoi figli per tutti i giorni della sua convalescenza.
“Dopo che avevo saputo - raccontava nel volume I miei sette figli, dato alle stampe nel 1955 - mi venne un grande rimorso. Non avevo capito niente e li avevo salutati con la mano, l’ultima volta, speranzoso che andavano al processo e gliela avrebbero fatta ai fascisti, loro così in gamba e pieni di stratagemmi. E invece andavano a morire. Loro sapevano, ma hanno voluto lasciarmi l’illusione, e mi hanno salutato sorridendo; con quel sorriso mi davano l’ultimo addio”.
Venuto a sapere dell’eccidio, papà Cervi riuscirà a ritrovare le tombe dei sette ragazzi solo tempo dopo.
“Dopo un raccolto ne viene un altro - diceva il 25 ottobre del 1945, giorno dei funerali - bisogna andare avanti (…) I miei figli hanno sempre saputo che c’era da morire per quello che facevano e l’hanno continuato a fare, come anche il sole fa l’arco suo e non si ferma davanti alla notte. Così lo sapevano i tanti partigiani morti, e non si sono fermati davanti alla morte. E ora essi sono con noi in questa terra di Emilia dove le viti si abbracciano alle tombe, dove un lume e un marmo è la semente di ogni campo, la luce di ogni strada”.
In quell’ottobre di tanti anni fa Alcide smette di essere Alcide e diventa papà Cervi.
Forse nessuno gli ha mai chiesto che ne pensasse di questo cambio d’anagrafe pubblico - scriveva Mirco Zanoni - Ma lo viveva con la stessa dignità e la consapevolezza che gli consentiva di stare eretto davanti al dolore. La vita di papà Cervi era iniziata a 70 anni. Quando nell’ottobre del ‘45 la storia della sua famiglia varcò per sempre la soglia dei Campirossi per diventare patrimonio pubblico. Fu un altro funerale, a far nascere papà Cervi: la consegna delle spoglie dei suoi sette figli alla loro terra, a Campegine. Nel luogo dove sono ora, a fianco del padre, della madre, delle mogli. Papà Cervi nasce vecchio, con il cappello e i baffi grigi, con le rughe di vita e di fatica che ne fanno un’icona perfetta per l’Italia che cerca specchi non infranti, tra le macerie della ricostruzione. I nuovi italiani cercano luoghi, bio- grafie, coscienze in cui trovare se stessi. Perché la politica non basta, e nemmeno l’ideologia e la fede. Serve l’anima, per ricostruire. Serve la verità della fatica e dell’umiltà, che solo dalla terra può venire. E la storia di Alcide, Genoveffa, dei suoi figli, delle loro donne e dei loro bambini, è una storia di terra, orizzontale come la pianura dove nasce e resiste, fino alla fine. (…) Papà Cervi nei suoi 25 anni di vita è stato vestito di molte bandiere, alcune cucite apposta per lui. È stato avvolto di molto rosso, di molte parole. Ha portato tutto con la stessa dignità di ogni altra cosa. Come le sette medaglie sul petto dei suoi figli; come il “giubèt” con cui riceveva, a ogni ora, delegazioni ufficiali allo stesso modo delle persone qualsiasi che si fermavano a Casa Cervi.
Il seme della Resistenza
Per il suo impegno partigiano e per quello dei suoi figli a papà Cervi sarà consegnata una medaglia d’oro realizzata dallo scultore Marino Mazzacurati, che da un lato reca l’effigie di Alcide e dall’altro un tronco di quercia tra i cui rami spezzati brillano le sette stelle dell’Orsa.
“Mi hanno sempre detto - diceva nell’occasione della consegna - ‘Tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami, e quelli sono stati falciati, e la quercia non è morta’. La figura è bella e qualche volta piango. Ma guardate il seme, perché la quercia morirà”. Alcide Cervi muore nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1970 all’ospedale di San Ilario, in provincia di Reggio Emilia.
Le sue esequie a Reggio Emilia saranno un evento nazionale. Oltre 200.000 persone affolleranno le strade e la piazza dell’ultimo saluto. Gli rendono omaggio tutte le grandi personalità della politica e delle istituzioni legate alla storia antifascista, ma anche tanta, tantissima gente comune. Ferruccio Parri lo onorerà con una toccante orazione funebre. Un uomo, papà Cervi, una quercia alla cui ombra, in fondo, cerchiamo riparo un po’ tutte e tutti noi. Anche oggi, soprattutto oggi.