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Dopo qualche settimana cominciamo a prendere le misure, a mettere insieme le cose, a immaginare un minimo di continuità. L’obiettivo è arrivare a giugno nel migliore dei modi. Sappiamo di essere appesi a un filo malgrado cerchiamo tutti di fare il possibile, e il possibile non è detto sia sufficiente.
Mantenere le distanze, per esempio, è facile a dirsi, meno facile a farsi: a volte non ci riusciamo proprio. Il suono della campanella dell’ultima ora significa essere già fuori l’aula, in fila indiana, a un metro di distanza l’uno dall’altro; ma le distanze vanno e vengono, oscillano da un secondo all’altro, può accadere che all’improvviso si deve far passare l’altra fila, o ancora siamo noi che ci spingiamo un po’ così, per scherzare. E già, può succedere, lo confesso, perché in certi momenti ci serve il contatto. La scuola è anche questo.
Altrimenti basterebbe la didattica a distanza o, come si dice adesso, integrata. Integrata perché bisogna prepararsi al peggio, e farsi trovare pronti. E allora il collegio docenti discute soprattutto di questo, anzi il collegio stesso diviene, in una strana forma di mise en abyme, il prototipo di una sperimentazione mista, con una parte del corpo docente in presenza, l’altra che segue da lontano. Al prossimo giro si inverte il turno.
Nel frattempo, bagnato da una mattina piovosa, compare l’organico-Covid. La materia è la stessa, la classe pure, dobbiamo dividerci i compiti, in ogni senso. E il programma didattico che fine fa? Pensiamoci, organizziamoci, convochiamo una riunione. Un vago senso di smarrimento, ma è questione di un attimo.
Il fatto è che dopo aver accompagnato gli studenti al cambio primaria-secondaria di primo grado, al secolo nel passaggio dalla quinta elementare alla prima media, ora che sarà l’anno dell’esame di stato l’idea era quella di lavorare tutti insieme, di concerto, portando avanti un programma che è stato accidentato, non c’è dubbio, ma elaborato su un percorso triennale, per cercare di costruire un apprendimento progressivo della storia della letteratura, della storia tutta.
Non che tutto questo non si possa fare, anzi si farà, perché si deve fare. Bisognerà accordarsi, suddividere la classe in due gruppi, cambiare ambiente, alternarsi settimanalmente palleggiandosi gli studenti. D’altronde questo ci viene chiesto, e poco altro si può escogitare. E per trovare le energie giuste, affrontando la novità con lo spirito che occorre, basta ruotare il punto di osservazione, considerando come il lavoro in gruppo ristretto possa facilitare un altro modello didattico, più mirato, e allo stesso tempo aggiungere qualcosa di diverso grazie alla collaborazione tra insegnanti di una stessa disciplina ma con competenze differenti, in base alle esperienze da ciascuno maturate negli anni.
Se poi arriverà il contagio, se la scuola sarà costretta a fermarsi e si dovrà applicare il piano d’emergenza, tornando a trascorrere intere giornate sulle nostre amate piattaforme, ce ne occuperemo a tempo debito. Intanto proviamo ad aggiornarci, a riempire la sempre più sgangherata cassetta degli attrezzi di altri strumenti, a escogitare nuove soluzioni, a mettere un giorno dietro l’altro, stringendo i denti, coprendo il viso, e incrociando le dita.
Prima o poi sarà Natale.