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Il censimento Istat 2019 propone spunti di riflessione sia quantitativi che qualitativi di notevole interesse. Il 2019 è l’anno che precede la pandemia e sarà quindi necessario verificare come l’andamento del 2020 cambierà alcuni di questi parametri, a partire dalla popolazione residente, dalla sua età media e dall’andamento dell’aspettativa di vita.
In precedenti report, seppur parziali, riferiti all’anno in corso, lo stesso Istat infatti indicava scenari ipotetici che prevedevano, rispetto al 2019, un incremento della mortalità da un minimo di +38mila persone fino ad un massimo di 80mila, a seconda degli scenari sanitari che si sarebbero prefigurati. Scenari che come ora sappiamo, sono risultati fortemente negativi per tutto il corso dell’anno, con dati che stanno raggiungendo quella soglia massima. Su quella base, la speranza di vita era considerata in calo in un possibile range da sei mesi a un anno.
Sempre in maniera previsionale, si prendevano in considerazione anche le prospettive della natalità. Le fasi di crisi hanno sempre inciso negativamente sulla natalità. Dal 2008, ad esempio, i problemi economici e occupazionali che si sono prodotti, hanno fortemente inciso, oltre che sulle condizioni materiali, sul sentimento di fiducia nel futuro, e quindi sulle scelte delle persone. Nel 2020, agli scenari economici ed occupazionali, si somma il problema sanitario che aumenterà queste tendenze, al punto di correre il rischio di scendere sotto la soglia dei 400mila nati annui. Sono elementi di scenario da tenere sempre in considerazione mentre si commentano i dati del 2019. Nella sintesi Istat tra i principali risultati del 2019 spiccano alcune tendenze:
- Il costante calo della popolazione di cittadinanza italiana (dal 2011 -800mila unità) nonostante le acquisizioni di nuova cittadinanza, è sempre meno compensato dall’aumento dei cittadini stranieri (dal 2001 + 1 milione). La popolazione residente evolve in maniera diversa anzitutto per area geografica: in calo nel Mezzogiorno e nelle isole, in aumento al centro nord. Più del 50% è concentrato in cinque regioni, con Roma che è il più grande Comune d’Italia, la popolazione diminuisce nei piccoli comuni (-5mila abitanti) di ben -520mila persone, mentre aumenta nelle altre realtà soprattutto nei comuni oltre i 50mila abitanti.
- Una dinamica di inurbamento dovuta principalmente ai cittadini stranieri non comunitari. Gli italiani invece diminuiscono in tutte le classi dimensionali ad eccezione di quella tra 50mila e 100mila abitanti.
- L’Italia è un Paese che continua ad invecchiare, e questo ha conseguenze sociali, economiche e culturali. L’età media rispetto al 2011 passa da 43 a 45 anni. Dal 1951 l’aumento è fra i 13 e 14 anni. Questo, nonostante l’apporto positivo della popolazione straniera che rallenta il meccanismo, l’età media degli stranieri è infatti più bassa (-11 anni nel 2019).
- Di particolare rilievo sono i dati relativi ai titoli di studio. I laureati, rappresentano il 13,9% della popolazione, mentre è il 35,6% che ha un diploma di secondaria superiore. Questi livelli di istruzione nel 2019 non raggiungono ancora il 50% della popolazione. Il 29,5% di popolazione ha la licenza di scuola media e ancora, nel 2019, il 16% unicamente la scuola elementare. Oltre il 45% dunque che ha un livello di istruzione medio-bassa, a cui si aggiunge un 4,6% di analfabeti o comunque senza alcun titolo di studio. Dati, in miglioramento rispetto al 2011, ma che restano decisamente più bassi della media europea. Anche in questo caso, si riscontrano notevoli differenze territoriali, con un livello di istruzione più basso nel meridione e nelle isole. Le differenze territoriali sono però anche ramificate e inversamente proporzionali rispetto all’ampiezza demografica dei comuni. In particolare, per i laureati, la percentuale passa dal 9,2% nei comuni fino a 5mila abitanti, al 21,9% oltre i 250mila abitanti.
- Infine, la condizione professionale. In 8 anni gli occupati crescono appena dello 0,6%, aumentano i disoccupati e non si riassorbe se non minimamente l’anomalia italiana degli inattivi. Le regioni con occupati sopra il 50% sono 4 e tutte al nord, mentre le 8 regioni con il dato più basso sono tutte nel mezzogiorno. La quota percentuale più alta di occupati è nei comuni fra 90mila e 100mila residenti. Cresce, ma troppo poco, la presenza delle donne nel mercato del lavoro, dal 2001 +410mila, non superando però il 42% del totale degli occupati.
Sono molti altri ovviamente i dati che emergono dal rapporto Istat. Ma gli argomenti richiamati sono particolarmente significativi nel confermare i problemi strutturali non risolti e per indicare scelte prese nell’utilizzo dei fondi europei. Intervenire su questi aspetti deve significare contemporaneamente ricadute immediate ma anche un’idea di programmazione che dovrà continuare a produrre effetti in un periodo più lungo. Se si vuole parlare però di un futuro migliore per il Paese, dovremo occuparci non solo di efficienza e produttività, ma intervenire sull’insieme dei fattori e degli assetti istituzionali che incidono sul valore aggiunto e sulla qualità della vita dei cittadini italiani.
Fulvio Fammoni è presidente della Fondazione Di Vittorio