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Non vorrei entrare nel merito dell’annosa questione riguardante il prepotente ingresso delle prove Invalsi nella vita della scuola pubblica italiana: le cose sono andate così, dovendosi conformare agli obiettivi stabiliti ormai vent’anni fa a Lisbona, quando venne introdotta dai paesi dell’Unione Europea una rilevazione periodica degli apprendimenti degli studenti condotta su diversi livelli di scolarità. Il ministero dell’Istruzione ha fatto proprie tali direttive a partire dal 2008, affidando il tutto all’“Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione”, da cui l’acronimo divenuto in molti casi lo spauracchio di docenti e allievi.
Quello che accade in realtà è infatti una corsa contro il tempo per farsi trovare pronti all’appuntamento, di solito previsto dal calendario scolastico della secondaria di primo grado proprio nel mese di maggio, dunque a ridosso degli esami per l’ultima classe (la vecchia terza media), tra le fasce coinvolte in questo sistema di valutazione. Ma quest’anno, in questo anno così particolare e complicato, la scelta lascia piuttosto perplessi. I motivi sono presto detti.
Dopo qualche esitazione il titolare del dicastero, Patrizio Bianchi, ha emanato agli inizi di marzo un’ordinanza ministeriale nella quale venivano indicati i nuovi criteri per sostenere l’esame conclusivo per le secondarie di primo e secondo grado (medie e superiori), individuati nell’elaborazione di una sorta di tesina-collage da presentare al momento del colloquio orale; tutto questo, viene scritto nella nota ministeriale, “tenendo conto dell’emergenza sanitaria”.
In questi giorni di suddivisioni in gruppi-classe, esercizi di preparazione, organizzazione del laboratorio informatico, sperando in una connessione che regga la concomitanza di tanti pc accesi nello stesso momento, durante la somministrazione (vocabolo orribile, soprattutto se rivolto a essere umani) delle varie discipline, dall’italiano alla matematica alle lingue straniere, tra colleghi più di qualcuno termina il proprio turno domandandosi perché l’Invalsi possa avvalersi di prove scritte, pur attraverso un computer, mentre l’esame di Stato no, come se da un punto di vista sanitario risultasse più pericoloso scrivere con una penna in mano su un foglio di carta rispetto allo spingere dei tasti davanti uno schermo; perché poi dover spendere tutte queste ore di scuola a poche settimane dalla fine dell’anno, quelle stesse ore in cui a ciascun professore, come riportato nell’ordinanza ministeriale, viene richiesto di coadiuvare in qualità di tutor uno o più studenti nello sviluppo dell’elaborato propedeutico al colloquio, da consegnare entro il prossimo 7 giugno alla commissione d’esame.
Un’ultima osservazione derivante dalla diretta esperienza. Come insegnante d’italiano sono stato incaricato di sorvegliare la prova Invalsi attinente la mia materia dopo la quale, alla fine del test sottoposto agli alunni su comprensione del testo e competenze lessicali, viene automaticamente allegato un questionario obbligatorio, con le seguenti domande:
Quale è stato il tuo voto nell’anno precedente?
A casa hai una stanza e una scrivania per poter lavorare?
Quanti libri ci sono approssimativamente nella tua casa, esclusi i testi scolastici?
Qual è il titolo di studio più elevato posseduto dai tuoi genitori?
Cosa fanno come lavoro i tuoi genitori?
Se frequenti la scuola di una zona difficile, come può essere la nostra, ma credo valga per qualsiasi altro istituto, almeno tre delle domande di cui sopra sembrano essere mal poste, potendo generare imbarazzo o spiacevoli confronti tra gli studenti, oltre che violare la loro vita privata. Si potrà obiettare che nel gran calderone delle statistiche europee i nomi e i cognomi dei ragazzi e delle ragazze che rispondono restano anonimi. Rimane da capire a cosa e a chi servano dati di questo tipo.