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Ogni tanto, quando vedo mio figlio che scarica sul cellulare giochi o app che lui definisce “bellissime e gratuite”, mi affanno nel tentativo di spiegargli che niente è gratis. Che la moneta di scambio con cui sta pagando contenuti più o meno utili o divertenti è molto più preziosa del denaro, perché si tratta dei dati. I suoi dati.
Quei dati che vengono passati al setaccio e rivenduti dai social network mentre raccontiamo tutto (o quasi) di noi, delle nostre abitudini, delle nostre preferenze. Oggi però quel mio faticoso tentativo di dare forma e sostanza a qualcosa che sembra evanescente, trova conforto nel fatto che la Procura di Milano ha portato a termine una preziosa indagine su Meta Platforms Ireland Limited (titolare dei social network Facebook e Instagram), partita quasi due anni fa per dimostrare (e quantificare) l’impatto che i dati degli utenti hanno in termini di ricavi indiretti per le web companies.
Ebbene, secondo quanto emerso, quello che si creerebbe “con i fruitori del servizio è un rapporto di natura sinallagmatica” che dev’essere ricondotto “alle operazioni permutative previste dall’articolo 11 del decreto 633 del 72”, le norme, cioè, che regolano i corrispettivi incassati non in denaro ma con la cessione di altri beni.
Per spiegarlo in maniera più chiara, è utile comprendere il significato della parola “sinallagmatica”, termine con cui si indica una categoria di contratti in cui le prestazioni dovute dalle parti sono tra loro connesse, al punto che l'una costituisce il corrispettivo dell'altra.
I beni in questione sono dunque in questo caso proprio quei dati personali che l’utente del social lascia sulla piattaforma e che porterebbero nell’atto di conclusione delle indagini, agli 877 milioni 623 mila euro contestati al colosso multimediale (a fronte di un’omessa dichiarazione da 3,9 miliardi di euro). Eccolo il “gratis” che inganna gli utenti più ingenui.
Meta ovviamente contesta gli addebiti, ma quel che è evidente è che si è comunque aperta una pagina importante per la regolamentazione delle attività di questi colossi digitali. Svelando il nesso tra utilizzo dei dati degli utenti e guadagni delle big tech si affermerebbe il principio che le piattaforme devono versare l’Iva sugli utili ottenuti grazie alla profilazione dei clienti.
Un’impostazione che sarebbe in linea anche con un pronunciamento del 2018 del comitato Iva presso la Commissione Europea, chiesto dalle autorità tedesche. Una buona notizia in tema di lotta all’evasione fiscale, ma anche un ulteriore spunto di riflessione su quanto sia importante accrescere il livello di consapevolezza, anche su questi aspetti, di chi utilizza i social network.
Personalmente oggi avrò sicuramente un argomento in più per spiegare a mio figlio che i dati sono preziosi e come tali vanno protetti e tutelati. Mi piacerebbe pensare che questo lavoro di sensibilizzazione partisse anche dalle scuole, perché è lì che si formano i cittadini (anche digitali) di domani.
Barbara Apuzzo, Responsabile politiche e sistemi integrati di telecomunicazione della Cgil