Sono già 16 i suicidi nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno e nel 2023 sono stati in tutto 69 i detenuti che si sono tolti la vita. Un numero impressionante, dice Denise Amerini, responsabile carcere e dipendenze dell’area Stato sociale e diritti della Cgil, sottolineando che gli ultimi due casi, a Caserta e Verona, riguardano un uomo disabile di 58 anni costretto su una carrozzina e un altro di 38 anni, di origine ucraina, appena dimesso da un reparto psichiatrico.

Queste circostanze dovrebbero farci riflettere sulle condizioni di vita di chi si trova negli istituti penitenziari: “Al loro interno c’è un’umanità varia, tanto che il precedente garante nazionale delle persone private della libertà (Mauro Palma, ndr) li ha definiti una discarica sociale – prosegue Amerini -. Nelle carceri sono rappresentate le umanità più fragili, persone con problemi, poveri, marginali senza dimora, tossicodipendenti, immigrati, con problemi di salute mentale malattie, persone che dovrebbero essere prese in carico per le cure e che invece sappiamo in quale stato versano, quale uso smodato di psicofarmaci si faccia negli istituti penitenziari”.

Un silenzio assordante

La funzionaria della Cgil denuncia l’assenza di attenzione sui suicidi in carcere e, in generale, sulle condizioni carcerarie. "In questi giorni hanno fatto giustamente clamore le immagini di Ilaria Salis in catene nelle carceri ungheresi, ma è opportuno che si accendano i riflettori anche sulle nostre carceri, ma se ne parla poco e male”. Quindi passa alle inefficienze del governo, notando che il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, si è limitato a dispiacersi nel commentare il caso dei recenti suicidi, “ma poi non fa nulla se non prospettare la costruzione di nuove carceri, che stando così le cose, non servirebbero a niente”.

A mancare, infatti, ancor più degli edifici carcerari, son i servizi e il personale necessario ammetterli in campo. “Molti dei suicidi avvengono poco dopo l’ingresso negli istituti di pena, a causa dell’impatto con situazioni spaventose – racconta Amerini -, oppure poco prima della scarcerazione. Questo ci dice molto circa l’assenza di prospettive delle persone in procinto di riacquistare la libertà, perché versano in solitudine, senza lavoro, talvolta senza nemmeno una casa dove andare. Lo spavento per quello che li aspetta fuori dal carcere può spingere al suicidio, perché il carcere non ha assolto al suo compito”.

Abbandonati

Reinserimento e socializzazione dovrebbero essere i temi cardine delle politiche carcerarie, anche per prevenire le recidive, ma sono rare le iniziative in merito e il carcere non assolve. “Invece ci sono ministri di questo governo che parlano di buttare via la chiave, di pene sempre più severe, benché da decenni si sappia che non è la severità della pena a fare da deterrente, altrimenti nei Paesi dove c’è la pena di morte non ci sarebbero i relativi reati. La propaganda populista non si occupa delle cause o dell’intervento sui modelli sociali e sulla formazione delle persone”.

Davanti a un governo che fa della povertà una colpa “dicendocela lunga su come pensa agli ultimi, il sindacato pone concretamente, ad esempio, il problema del sovraffollamento. Perché nel 2023 vi erano 60.000 reclusi contro una capienza di 47.000”. Il problema però non è principalmente quello dell’edilizia carceraria, benché esista a causa anche della fatiscenza di molti edifici, ma risiede invece nel fatto che “oltre 7.600 persone sono in carcere per una pena che va da un giorno a un anno”, ci fa sapere Amerini chiedendosi e chiedendo si questo ha un senso. Per chi sconta una pena molto breve il carcere “non può assolvere alla su a funzione educativa, ma di contro toglie la persone dal proprio ambiente per gettarle in uno stato come quello della detenzione, con effetti più devastanti e deleteri che utili”.

“La riforma della sanità penitenziaria del 2008 ancora oggi non è stata attuata, ci sono gravi carenze organiche, è necessario assumere personale penitenziario, ma soprattutto educatori, perché siamo il Paese europeo con il rapporto più basso tra educatori e carcerati – conclude -. Non basta dispiacersi, è tempo di agire: soluzioni e risposte sono possibili qui e ora”.