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La pandemia ha messo in evidenza come una cartina al tornasole tutte le disuguaglianze che il nostro Paese non ha affrontato o i tanti ambiti che ha colpevolmente dimenticato o impoverito. Uno di questi è il sistema dell’istruzione che torna al centro del dibattito pubblico per le incertezze nell’affrontare l'avvio dell’anno scolastico, con una serie di questioni sottovalutate nei mesi scorsi che hanno determinato pesanti e innegabili ritardi. Ci troviamo a fare i conti – come tutti i Paesi colpiti dal Covid – con la difficoltà di riuscire a garantire la sicurezza per gli studenti e i lavoratori delle scuole, delle università e dei servizi educativi. Ma abbiamo, rispetto agli altri Paesi, qualche responsabilità in più. E sono responsabilità che vengono da lontano.
Su 40 mila edifici, almeno la metà è stata costruita prima del 1970
Dovremmo fare uno sforzo di memoria collettiva e ricordare per esempio che l’aumento degli alunni per classe – che ovviamente complica le cose dovendo assicurare il distanziamento sociale – ha corrisposto alle politiche di austerity e quindi di taglio alle risorse pubbliche secondo le più ortodosse ricette liberiste. Era il 2008. L’inadeguatezza degli edifici scolastici e in tanti casi delle università è un fatto noto da anni, se è vero che gli stessi dati dell’anagrafe dell’edilizia scolastica ci dicono che su 40 mila edifici almeno la metà è stata costruita prima del 1970. Molti di essi con carenze strutturali o nell’impiantistica, o addirittura con presenza di amianto, per non parlare dell’efficientamento energetico. E dovremmo ricordare che – forse unico Paese al mondo – abbiamo una condizione bizantina per la definizione degli organici del personale che costituisce la condizione strutturale del precariato scolastico. Facciamo i conti come Paese con quello che abbiamo seminato: non solo non abbiamo investito strutturalmente nella scuola, nei servizi educativi e in generale nella conoscenza e messo in campo un progetto di valorizzazione a lungo termine, ma al contrario, abbiamo scelto il piccolo cabotaggio di misure di breve periodo o addirittura interventi che hanno peggiorato la condizione. Solo negli ultimi vent'anni, d’altra parte, si sono avvicendati dieci ministri dell’istruzione, un turn over impressionante che certo non ha giovato alla continuità del lavoro e alla possibilità di mettere in campo politiche di lungo respiro.
Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla
Adesso si apre una possibilità forse irripetibile, la definizione del piano nazionale per la ripresa e resilienza sostenuto dalle risorse europee di Next Generation Eu. Ripresa, resilienza, prossima generazione. È la straordinaria occasione per qualificare e rafforzare il nostro sistema educativo, di istruzione e di formazione e per innalzare gli stessi i livelli di istruzione. Questo tema, insieme alla tutela della salute e dell’ambiente e alla qualità del lavoro, rappresentano i pilastri di una strategia che si fonda sull’economia della cura e della conoscenza e che cambia radicalmente il modello di sviluppo, contrasta le disuguaglianze e favorisce la mobilità sociale e che soprattutto parla ai ragazzi e alle ragazze di questo paese, quelli di oggi e quelli di domani. Il grande cambiamento, spiega il Premio Nobel per l'Economia Joseph Stiglitz, è passare "dall’economia come processo di cui si misurano gli esiti in termini di produzione a una rappresentazione centrata sugli standard materiali di vita, sulla loro sostenibilità e sull’insieme delle condizioni immateriali che concorrono a determinare con i primi il benessere dell’individuo e il progresso della società".
L’istruzione è il passaporto per il futuro, perché il domani appartiene a coloro che lo preparano oggi
Abbiamo una straordinaria necessità di ripartire dalla conoscenza: i dati Istat ci dicono, ad esempio – purtroppo non da oggi – che rispetto alla media Ue abbiamo una quota ancora troppo bassa di popolazione in possesso di titolo di studio secondario superiore. Va ancora peggio se consideriamo il numero di chi è in possesso di un titolo di studio terziario. Se guardiamo all’investimento in ricerca, poi, il nostro Paese con un risicato 1,38 per cento del Pil resta saldamente in coda nella classifica dell'eurozona. Solo 24 bambini su 100 trovano posto nei servizi della prima infanzia, ben al di sotto da quel parametro del 33 per cento che l’Unione aveva fissato nel 2002 come traguardo da raggiungere entro il 2010. Per non aggiungere le differenze e i divari territoriali tra Nord e Sud e con le aree interne.
Questo quadro non è neutro, già oggi, rispetto alle aspettative occupazionali e alle prospettive di sviluppo economico e lo sarà sempre meno in un contesto economico in rapido mutamento per effetto di grandi transizioni e salti tecnologici che necessiteranno di solidità delle conoscenze e delle competenze. Come si qualifica complessivamente il sistema dell’istruzione e della formazione e quale sistema mettiamo in campo per garantire il diritto individuale, durante tutto l’arco della vita, alla formazione permanente (formazione non aggiornamento, please!) sono oggi i temi più sfidanti per l’economia e per il lavoro. Lo sviluppo economico e sociale del Paese è e sarà fortemente collegato alla capacità di un sistema della conoscenza complessivamente in grado di supportare passaggi repentini ed eventi disruptive, come la pandemia ad esempio e la conseguente crisi economica e sociale che stiamo affrontando.
“Nella classe lavoratrice ... ho trovato un bisogno straordinario, molto più grande di quello di avere un alto salario, ecco, di diventare persone libere, di esprimersi attraverso il proprio lavoro liberamente, di conoscere”
Non c’è solo la sfida economica e dello sviluppo nel considerare oggi centrale l’istruzione e la conoscenza. C’è soprattutto una scelta di democrazia e di libertà. Qualche anno fa durante la crisi finanziaria ed economica dei primi anni 2000, Marc Augè ci ricordava che le crescenti disuguaglianze e povertà vanno di pari passo con le difficoltà di accesso al sapere e il disinvestimento dei sistemi educativi, lo denominava “spread della conoscenza”. In questa nuova crisi mondiale, dobbiamo affermare concretamente che l’istruzione e la formazione rappresentano le leve principali per fare e mantenere coesione sociale, per garantire il principio di eguaglianza e di pari dignità, ma rappresentano anche presupposto di libertà e partecipazione democratica, proprio a partire dal lavoro.
Oggi esattamente come ieri, il processo di emancipazione e di autorealizzazione passa attraverso la possibilità di accedere agli strumenti che rendono meno ricattabile e meno sfruttata la condizione lavorativa: ciò significa ovviamente le garanzie dei diritti, ma anche la possibilità di accesso alla conoscenza. Ieri erano le 150 ore, oggi abbiamo l’urgenza di ridefinire e/o rafforzare uno strumento analogo, che sappia stare al passo con i cambiamenti ma che risponda a quel processo di dealfabetizzazione che puntualmente l’Ocse certifica per la popolazione adulta del nostro paese e contrasti la crescente polarizzazione nel mondo del lavoro. Questa è la sfida democratica che il nostro Paese deve affrontare, rendere concreta ed esigibile la possibilità di un cambiamento, che consegni – non solo alla prossima generazione – la capacità di poter migliorare la propria condizione materiale, che affermi la cura dell’ambiente e del territorio come precondizione dello sviluppo, che redistribuisca ricchezze e opportunità e riconosca il valore della conoscenza come “ ’arma più potente... per cambiare il mondo”.
Buon anno scolastico a tutti i lavoratori e le lavoratrici e a tutti i ragazzi e le ragazze, i bambini e le bambine.
Gianna Fracassi è vicesegretaria generale della Cgil