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Zona Corviale, Roma Capitale, estate 2023. Si cammina costeggiando il Serpentone che caratterizza un quartiere intero, dove migliaia di persone vivono assiepate ogni giorno, ogni notte, e torna ancora una volta forte la sensazione che qualcosa accomuni ciascuno di questi luoghi perduti e sperduti, diversi ma simili alle altre periferie della città, alle altre periferie del mondo. Luoghi che diventano non-luoghi, rispolverando Marc Augé, perché fa comodo a qualcuno. Più di qualcuno. Luoghi rimossi dai radar delle istituzioni, non da chi cerca di dare una mano, offrendo la propria presenza a chi ci vive, vivendo insieme a loro.
È il caso di Massimo Vallati, coordinatore del progetto di Calcio Sociale iniziato qui nel 2009, che dopo quasi tre lustri resiste tra molte difficoltà, tante soddisfazioni, non poche minacce, piuttosto concrete. Dopo qualche tempo dal suo incontro con questa realtà Massimo ha deciso di restare qui, di vivere qui, di dormire qui, dentro il Campo dei Miracoli, perché un conto è lavorarci, in posti come questi, un conto è viverci. E se vuoi lavorarci per bene, se vuoi lavorarci sempre meglio, di questi posti devi anche condividere la quotidianità, le serate, la notte. L’inizio di un nuovo giorno.
Il progetto di Calcio Sociale cambia alcune regole del gioco, e il gioco di conseguenza cambia pelle. Nel decalogo che lo certifica (in realtà le regole di base sono nove), forse la modifica più evidente riguarda la presenza dell’arbitro, anzi la sua assenza. Il punto 4 infatti recita così: “Non esiste l’arbitro, ogni giocatore deve imparare a essere responsabile”. Se pensiamo a cosa potrebbe accadere in una partita di campionato di Serie A, per non parlare delle categorie inferiori, vengono i brividi; ma lì ballano i soldi, obietterà qualcuno, mentre qui la partita è completamente diversa. Chiaramente è così, ma è comunque impressionante vedere in che modo possa trasformarsi il contenuto e il significato di un calcio sferrato correndo dietro a un pallone. Di tutte, forse è la prima regola a essere la più importante; quella che, ispirandosi verosimilmente all’Articolo 3 della nostra Costituzione, invita chiunque a far parte delle squadre, basta avere un’età compresa tra i 10 e i 90 anni. E così, nel Campo dei Miracoli, il miracolo avviene.
In questo caldo pomeriggio romano, quando l’ombra del Serpentone comincia ad allungarsi per offrire tregua agli spalti in legno e al prato verde di ultima generazione (ce ne fossero di impianti così), all’improvviso gente di ogni ordine e grado inizia a sgambettare allegra, spuntano le pettorine gialle e un paio di palloni, un minimo di riscaldamento sino a quando non ci si ritrova nel cerchio di centrocampo, mano nella mano. E osservando dalle panchine ci si rende conto che è proprio così, le due squadre che stanno per formarsi raccolgono tutto e tutti, uomini e donne, grandi e piccini, atleti e no, dal bianco al nero con varie gradazioni di colore.
Tra un passaggio azzeccato e uno mancato, ciò che colpisce maggiormente sono i loro volti, ancor più quando, a fine partita, scorrono sovrapposti uno a uno per guadagnare gli spogliatoi. Volti che sembrano maschere, maschere di uno spettacolo alle cui repliche possiamo assistere non soltanto da qui, in questa zona, ma ovunque il degrado e l’abbandono prendano il sopravvento. Lo sguardo negli occhi, i segni sul viso, l’andatura cadenzata, è come se fossero il linguaggio muto di un corpo appartenente a un’unica razza: la razza di chi, per non disturbare altre razze, viene confinata ai margini senza star lì a far troppe domande. Senza dare alcuna risposta. Eppure, dopo l’acqua di una doccia tiepida che ritempra gli animi e disinfetta le ferite, in questi volti a prevalere è sempre il sorriso, la soddisfazione di far parte di un gruppo, il desiderio di essere insieme. Ancora insieme.
Il Serpentone veglia su di noi, mentre il sole si nasconde dietro lui.