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Sette attentati intimidatori contro gli operatori di Progetto Sud. Per la prima volta in Calabria la ‘ndrangheta se l’è presa direttamente con le lavoratrici e i lavoratori. Angelo Sposato, segretario generale della Cgil Calabria, che segnale è?
È un segnale inquietante. Non era mai accaduto prima che le intimidazioni fossero rivolte direttamente a chi lavora. È sintomatico di un modello criminale che ha alzato il tiro: temiamo ci siano nuove leve della ‘ndrangheta che purtroppo utilizzano la strategia della intimidazione e della tensione. In realtà questo accade non solo a Lamezia, ma in tutta la Calabria osserviamo fenomeni nuovi, simili a quelli che si sono verificanti contro Progetto Sud. Siamo andati ad incontrare tutti gli operatori di Progetto Sud e abbiamo chiesto al prefetto di Catanzaro di alzare la guardia. Lo stesso don Giacomo Panizza è andato dal procuratore Gratteri, ma in questo momento è necessaria una grande vigilanza sociale: occorre stimolare la società civile a non lasciar soli lavoratrici e lavoratori che operano nei beni confiscati. C’è bisogno di una coscienza collettiva e di una reazione di tutti i cittadini onesti, che purtroppo ancora non si fa sentire.
In Calabria ci sono due società, quella dell’illegalità, dell’intimidazione, dell’economia inquinata e illegale. E poi esiste un'economia pulita, che vuole riscattarsi, che punta sul lavoro. Qual è il ruolo del lavoro per togliere acqua all’economia malata?
Lo afferma Progetto Sud quotidianamente: con il lavoro e con la legalità si può creare sviluppo e futuro. La nostra preoccupazione è che in questo momento in Calabria, vuoi per la vicenda pandemica, vuoi per la situazione economica che è la seconda pandemia che abbiamo, si avverte un senso di abbandono da parte dello Stato, anche rispetto alle attività di queste nuove imprese sociali. La norma sui beni confiscati dovrebbe aiutare a far in modo che dopo la consegna del bene alle associazioni non li si lasci a loro stessi: ci dovrebbe essere un accompagnamento con strategie di investimenti e di sviluppo, che il governo dovrebbe dare a queste realtà che con coraggio utilizzano i beni confiscati. Questo senso di abbandono che si vive dalle nostre parti rispetto ai temi dello sviluppo e del lavoro è deleterio, va invertita la rotta. Proprio in questo momento di vuoto politico che viviamo in Calabria, è necessario che il governo assuma la questione del Mezzogiorno davvero come centrale, è necessario dare segnali chiari rispetto alle risorse del Recovery Fund e della transizione energetica. Occorre dare segnali chiari rispetto al ruolo del pubblico nel creare lavoro di qualità. In questo momento tutto questo non si avverte. Tutto ciò rischia di diventare occasione di spartizione delle imprese in difficoltà da parte dei cartelli criminale.
Cosa dovrebbero mettere in campo lo Stato, le istituzioni per ridurre questo senso di abbandono che vivono i calabresi?
Occorre subito mettere in campo risorse e non solo, per sostenere famiglie e piccole imprese. Ma occorre anche una nuova spinta produttiva attraverso le partecipate pubbliche. Attraverso Fri, Leonardo, Eni Enel si possono mettere in piedi programmi innovativi di produzioni. Bisogna fare un cronoprogramma di investimenti attraverso il Mise e creare le condizioni per uno sviluppo produttivo. È necessario individuare filiere produttive che possano creare da subito lavoro. Contemporaneamente, bisogna dare sostegno alle piccole e medie imprese che da sole non ce la fanno. E poi sbloccare le assunzioni. La pubblica amministrazione in Calabria, in realtà in tutto il mezzogiorno, vive una povertà di risorse umane enorme. Le assunzioni in sanità e in generale nella pubblica amministrazione, sono fondamentali. Se il governo, come sta avvenendo per la sanità, si limita solo a mandare commissari – che per altro non hanno nemmeno capacità manageriali – che non riescono a dare la spinta necessaria per uscire dalla crisi, questo determina un senso di abbandono profondissimo. In questo momento servono impegni e interventi concreti, non solo da un punto di vista economico, ma della qualità degli investimenti che si andranno a fare.
In diverse realtà calabresi esiste un protagonismo della società civile, che però rischia di rimanere asfittico se non trova sponda nelle istituzioni.
Sconforto, questo è il sentimento più diffuso. Con chi dovremmo ragionare, ad esempio, noi del sindacato? Sulla sanità abbiamo un ex prefetto che non da nessuna risposta rispetto all’emergenza. In Regione abbiamo un facente funzione che non è una figura autorevole né è in grado di fare alcun ragionamento sul Recovery Fund. Per questa ragione abbiamo proposto alle forze sane della società civile di unirsi insieme a al Consiglio Regionale rimasto in carica fino al voto, si faccia da noi come si è fatto a livello nazionale per fronteggiare l’emergenza. Facciamo un patto, politica sindacato e forze sociale, troviamo un accordo sulle priorità. Il problema è che se non ci sono interlocuzioni affidabili anche la società civile fatica a reagire, perché non vede ritorni. Per queste ragioni abbiamo chiesto al governo e alla presidenza del Consiglio di assumere su due o tre questioni prioritarie, investimenti, infrastrutture, sanità e un piano per il lavoro, un impegno diretto per la Calabria attraverso una task force nazionale. Non possiamo attendere che si voti. Il momento è ora per definire il futuro della regione. Il nostro appello è stato accolto da tutte le forze che siedono in consiglio regionale, abbiamo chiesto tre sessioni di lavoro sulle priorità che abbiamo indicato, e poi abbiamo chiesto un incontro con la deputazione parlamentare ponendo le stesse questioni. Ora tocca alla politica rispondere.