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Cosa hanno in comune le recenti manifestazioni d’intolleranza verso le forze dell’ordine che, secondo l’Asaps, ogni tre ore e mezzo registrano l’aggressione a un tutore dell’ordine, con le uccisioni di una donna ogni 72 ore, comprese le reiterate brutalità da “branco selvaggio” preparato a colpire – tutti contro uno – chiunque? Le differenze oggettivamente esistono, in comune vi è l’esplosione di violenza.
A Massa Carrara ha retto la logica del “tutti contro gli altri”: anche se non siamo in presenza di delinquenti ma di ragazzi della movida, che se presi singolarmente hanno altri comportamenti, anch’essi hanno agito sotto la spinta e la pressione di un gruppo che ha individuato nelle forze dell’ordine un altro gruppo anonimo e compatto.
Nel caso di Colleferro, che ha purtroppo precedenti in altre località del Paese, la mentalità delinquenziale, come spiega Francisco Mele, si basa sull’identità del branco: “Il gruppo è più della somma dei singoli componenti, è forte come una bestia feroce e s’impone come mente e identità, funzionando compatto, senza la censura di qualsiasi barlume di coscienza individuale”. Per il criminologo, quindi, “la mente del gruppo annienta il foro interiore, ossia il tribunale della coscienza, cosa che avviene tanto più quando anche il tribunale sociale non funziona”.
Il tema della giustizia, che tutti invochiamo soprattutto in tali casi, impone pertanto di chiederci: le famiglie di oggi sono in grado di trasmettere il senso della giustizia? Ma c’è di più: se oggi circa sette milioni di donne in Italia hanno subìto violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita e per quasi tre milioni l’abuso è stato perpetrato dal partner o dall’ex, tanto che ogni 72 ore una donna viene uccisa da una persona di sua conoscenza e tre femminicidi su quattro avvengono in casa, siamo o no in presenza di un fenomeno drammatico della nostra società?
Se viviamo in una società pervasa dalla violenza fisica, psicologica o nella subdola forma della discriminazione per quanto attiene il genere, sul lavoro come nei rapporti interpersonali, non stupiamoci se i nostri giovani replicano le strutture comportamentali familiari. Secondo una ricerca dell’Osservatorio nazionale adolescenza, ad esempio, il 17 per cento dei ragazzi controlla di frequente lo smartphone della fidanzata per verificare messaggi e chiamate.
Se nella questione di genere pesano i ritardi nell’applicazione della Convenzione di Istanbul o la chiusura dei centri antiviolenza, non illudiamoci che la recente legge del cosiddetto “codice rosso” potrà risolvere questi problemi senza un approccio socioculturale. Anche la via repressiva, che agisce ex post, non potrà mai competere con i dovuti quanto necessari interventi che scuola e famiglia somministrano ex ante.
Abbiamo il compito di educare al rispetto le nuove generazioni, far capire loro cosa sia giusto. Anche taluni comportamenti che si osservano tra giovani e giovanissimi sull’uso dei social preoccupano fortemente: penso al tristissimo fenomeno del cyberbullismo o alla messa in rete di qualsiasi contenuto pur di fare notizia, incuranti delle conseguenze. Le campagne di sensibilizzazione esistono, ma pare non bastino vista l’impennata dei reati sul web.
Comprendo come non sia facile mettere insieme singoli episodi e situazioni diverse tra loro, ma sono fermamente convinto che le due più importanti agenzie educative, ossia la scuola e la famiglia, possono fare ben più di qualsiasi intervento repressivo messo in campo dalle forze dell’ordine. La prevenzione è la sola risposta possibile.
Le profonde trasformazioni che hanno interessato negli ultimi decenni queste istituzioni mettendone in discussione ruoli, funzioni e autorevolezza, con la messa in crisi di un rapporto delicato e complesso (si veda, ad esempio, la perdita di autorevolezza dei docenti, cui seguono sovente aggressioni a insegnanti), sono la spia oggettiva della perdita di una relazione di fiducia che va al più presto ricostruita. Occorre farlo in fretta affinché si ristabilisca quel processo di socializzazione, educazione e istruzione dei nostri giovani, affinché anch’essi vedano nelle istituzioni, forze di polizia comprese, quei soggetti che sono al loro servizio e che svolgono una professione indispensabile di aiuto.
Sono consapevole che le recenti crisi economiche, lavorative o pandemiche non aiutano, come non aiuta chi continua ad alimentare l’intolleranza e l’insofferenza nelle persone, denunciando poi episodi di cronaca frutto di tale clima e ricercandone il responsabile. Di certo non sarà un periodo facile quello che si parerà davanti in una fase post-Covid, tuttora incerta, ma di sicuro abbiamo il dovere morale di mantenere coese, il più possibile, le nostre istituzioni democratiche senza imbarbarirci ulteriormente.
Daniele Tissone è il segretario generale del Silp Cgil