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Liliana Segre nasce a Milano il 10 settembre 1930. Cresce assieme al padre Alberto e ai nonni paterni, dopo aver perso la mamma quando ancora non aveva compiuto nemmeno un anno di vita. Discriminata a causa dell’entrata in vigore delle leggi razziali in Italia, il 10 dicembre 1943 prova - insieme al padre e due cugini - a fuggire a Lugano, in Svizzera. Respinta dalle autorità del paese elvetico il giorno dopo è arrestata a Selvetta di Viggiù. Dopo sei giorni in carcere a Varese, viene trasferita a Como e poi a San Vittore a Milano, dove sarà detenuta per quaranta giorni.
Il 30 gennaio 1944 sarà deportata dal binario 21 della stazione di Milano Centrale al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, che raggiungerà dopo sette giorni di viaggio. Nel suo diario della prigionia scriverà:
“La stanza era grande, lunga e stretta e vuota completamente. C’erano due porte e una finestra piccola, vicino alla finestra la stufa. La stufa era di ferro, era appena tiepida ma quel leggero tepore era annullato dalla corrente gelida che veniva dalla finestra. Stavo attaccata alla stufa e guardavo fuori la distesa di neve e le macchie indistinte delle prigioniere in fila, lontano verso i fili spinati. Avevo una consapevolezza nuova della mia nudità e del mio cranio rasato. La rasatura era stata crudele, la macchinetta passava duramente sulla povera testa quasi ormai pelata. I miei capelli neri lunghi, ricci, ribelli erano per terra e non avevo potuto tenere per me neanche il nastrino verde che li legava nella mia vita precedente. Non ero mai stata così sola e così infelice.
Le ore passavano e ogni tanto entravano dei soldati, mi guardavano, ridevano, scambiavano una battuta di spregio. Avevo fame, sete e freddo. Nessuno mi diede nulla né da bere né da mangiare né da asciugarmi, dopo la doccia rimasi bagnata mentre aspettavo che i miei stracci venissero disinfestati. La scoperta di un pidocchio sulla mia faccia e il mio gesto di ribrezzo disperato avevano attratto l’attenzione della kapò che mi aveva mandato subito alla disinfestazione e alla rasatura: io, la fortunata alla quale un mese prima all’arrivo a Birkenau non erano stati tagliati i capelli per un capriccio della sorvegliante, nell’invidia delle altre prigioniere. La mia faccia era terribile riflessa nel vetro. Mi facevo paura, volevo gridare, volevo piangere, volevo urlare la mia disperazione a quel cielo grigio: era inutile.
Dopo ore entrò una ragazza. Avrà avuto forse due o tre anni più di me, anche lei nuda e disperata. Si avvicinò alla stufa e ci guardammo con pietà fraterna, già amiche, già sorelle, con occhi adulti. Tentammo in tutti i modi di parlare ma non ci capivamo assolutamente (forse era cecoslovacca o ucraina) e allora non so più a chi delle due venne in mente di tentare con il latino scolastico delle nostre prime frasi delle scuole medie, così lontane da lì. E fu fantastico poterci scambiare dolci brevissime frasi: Patria mea pulchra est («La mia patria è bella»), Familia mea dulcis est («La mia famiglia è dolce»), Cor meum et anima mea tristes sunt («Il mio cuore e la mia anima sono tristi»). Fu molto importante quel momento e anche se non ho mai saputo il nome di quella ragazza, con lei ho vissuto un’altissima affinità spirituale e la massima condivisione in una condizione umana bestiale. Grazie amica ignota, spero che tu sia tornata a raccontare di quel giorno di marzo 1944 nella «Sauna» di Birkenau”.
Raccontare, una parola chiave per Liliana. Dei 776 bambini italiani di età inferiore ai quattordici anni deportati ad Auschwitz, la Segre è tra i soli 25 sopravvissuti. Rientrata a Milano nell’agosto del 1945 impiegherà quarantacinque anni a rompere il suo dolorosissimo silenzio sulla Shoah. “Era molto difficile per i miei parenti convivere con un animale ferito come ero io - raccontava qualche tempo fa - una ragazzina reduce dall’inferno, dalla quale si pretendeva docilità e rassegnazione. Imparai ben presto a tenere per me i miei ricordi tragici e la mia profonda tristezza. Nessuno mi capiva, ero io che dovevo adeguarmi a un mondo che voleva dimenticare gli eventi dolorosi appena passati, che voleva ricominciare, avido di divertimenti e spensieratezza”.
Solo nel 1990, da nonna, Liliana Segre comincerà a raccontare la sua storia. “Spero che almeno uno di quelli che hanno ascoltato oggi questi ricordi di vita vissuta - dirà in una sua testimonianza - li imprima nella sua memoria e li trasmetta agli altri, perché quando nessuna delle nostre voci si alzerà a dire ‘io mi ricordo’ ci sia qualcuno che abbia raccolto questo messaggio di vita e faccia sì che sei milioni di persone non siano morte invano per la sola colpa di essere nate. Altrimenti tutto questo potrà avvenire nuovamente, in altre forme, con altri nomi, in altri luoghi, per altri motivi. Ma se ogni tanto qualcuno sarà candela accesa e viva della memoria, la speranza del bene e della pace sarà più forte del fanatismo e dell’odio”.
L'Aned, Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti, ha realizzato in questi giorni un video in cui alcuni dei sopravvissuti alla Shoah e molti figli e nipoti delle vittime fanno gli auguri alla senatrice Segre in occasione dei suoi novant'anni. “Grazie di tutto” è la frase ripetuta più spesso, una frase che in coro ripetiamo anche tutte e tutti noi. Grazie senatrice, per quello che ha fatto, per quello che continua a fare. Grazie per la sua resilienza, per il suo coraggio, per la sua forza. “I giovani non hanno bisogno di sermoni, i giovani hanno bisogno di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo”, hanno e abbiamo - noi tutti - bisogno di persone come lei.