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Venti anni fa a Genova sfilò un grande movimento di massa che metteva in evidenza i rischi di una globalizzazione governata dagli interessi dei grandi centri di potere. Le persone, le associazioni che manifestarono nel capoluogo ligure erano portatori di idee e valori diversi: lavoro, diritti, giustizia sociale. C’era la consapevolezza della portata globale dei problemi aperti e dei processi in atto e, al tempo stesso, la volontà di agire localmente per affermare, attraverso esperienze concrete, una idea diversa di sviluppo. Vi era, inoltre, una domanda di democrazia e di partecipazione alternativa alla concentrazione del potere economico e finanziario. Quel movimento fu duramente represso. Una pagina buia della democrazia italiana. Quelle idee e valori sono però oggi più che mai attuali, a partire da un nuovo protagonismo del mondo del lavoro quale fattore decisivo per dare corpo a un nuovo progetto di società.
Guardiamo ai fatti. Ci troviamo in una condizione di grande difficoltà. Per certi versi inedita. Alla crisi economica e finanziaria del 2007/2008 dalla quale molti Paesi europei (tra cui il nostro) non erano ancora usciti ha fatto seguito una drammatica crisi sanitaria dovuta alla diffusione della pandemia da Covid-19. A tutto ciò si aggiunge inoltre e si intreccia la crisi climatica. Crisi economica, crisi sanitaria, crisi climatica non solo sono tra loro connesse ma l’una è causa dell’altra. La pandemia ha rallentato e a volte compromesso diverse attività, ha colpito il lavoro, ha cambiato comportamenti e stili di vita. Si è evidenziato così il carattere sistemico, compenso, dei problemi che devono essere affrontati.
La diffusione del virus, ad esempio, ha un rapporto diretto con la distruzione dell’ambiente, della biodiversità, con l’inquinamento atmosferico. Tutto ciò è l’ammissione più esplicita del fallimento dell’attuale modello di crescita che ha portato ad un approfondimento delle disuguaglianze tra le persone e alla rottura degli equilibri e dei rapporti con la natura e affrontare seriamente il concetto “di limite”.
Oggi tutti dobbiamo ripensare la tradizionale nozione di sviluppo. Per due ragioni su tutte. In primo luogo perché il modello di crescita che fino ad oggi abbiamo conosciuto si è fondato sulla convinzioni che le risorse naturali fossero illimitate e che la natura stessa non venisse intaccata dall’attuale modo di produrre e consumare. In realtà le cose stanno diversamente. Le risorse naturali tendono ad esaurirsi. Inoltre l’attuale modello produttivo compromette l’ambiente naturale. In secondo luogo, si è spezzato il rapporto lineare tra crescita e diffusione del benessere.
Oggi la crescita stenta e quando c’è produce disuguaglianza tra persone e territori. Si è marginalizzato il lavoro. Si è fatto credere che riducendo i diritti si potesse avere una ripresa della crescita e dello sviluppo. Così non è stato e si è prodotto invece un peggioramento delle condizioni di lavoro. Il lavoro, da luogo di identità e di emancipazione è sempre più percepito come fattore di divisione e solitudine. Flessibilità, precarizzazione, par-time involontario hanno prodotto una condizione diffusa fatta di disagio e di esclusione al punto che spesso si è poveri anche lavorando. Risparmiare sui costi per far crescere i profitti ha portato a non investire nella sicurezza e nella salute dei lavoratori.
Sta qui la drammatica crescita delle “morti bianche” negli ultimi anni. Inoltre, se guardiamo alle grandi trasformazioni in atto, ci rendiamo conto di come la tecnologia non sia neutrale. E quella che con enfasi viene chiamata “società della conoscenza” non è il luogo del miraggio e delle illusioni. Essa è un campo aperto di complicità e contraddizioni. Presenta forme inedite di competizione e divisione.
C’è bisogno di un cambiamento radicale, di un nuovo modello di sviluppo che rimetta al centro il lavoro stabile e dignitoso, le persone, i beni comuni. Esiste una grande domanda inevasa su cui declinare nuove e diverse politiche di sviluppo; il risanamento del territorio e delle aree urbane, le mobilità collettiva, le fonti di energia rinnovabili, la sanità, la qualità dell’alimentazione, l’economia circolare e la manutenzione programmata. Tutto ciò implica la necessità di dotarsi di una chiara visione di politica industriale, richiede una nuova qualità delle politiche pubbliche, rende urgente un investimento sui beni collettivi, a partire dalla sanità e dall’istruzione. Proprio per questo è necessario contrastare il lavoro precario, di valorizzare il ruolo della contrattazione di una legge sulla rappresentanza per cancellare i contratti pirata, di un nuovo Statuto dei lavoratori capace di tutelare tutte le forme di lavoro.
C’è bisogno quindi di una nuova capacità di lotta capace di incidere sull’organizzazione del lavoro, sulla struttura dell’economia e del potere, sulle strategie tecnologiche, sugli apparati della conoscenza e della formazione. Partecipazione e protagonismo del mondo del lavoro, qualità e libertà del lavoro rappresentano i criteri fondanti di un nuovo progetto di società.