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Nel documentario Rai I giardini di Abele del 1968 Sergio Zavoli chiedeva a Franco Basaglia: “È interessato più al malato o alla malattia?”. Lo psichiatra rispondeva: “Decisamente al malato”.
In questa ormai famosa affermazione è racchiuso il pensiero di Franco Basaglia, l’uomo che rivoluzionò la realtà dei manicomi fino ad avviarli alla dismissione e alla chiusura sancita dalla legge 180 del 13 maggio 1978.
Una legge nata quattro giorni dopo l’assassinio di Aldo Moro, “l’unica vera riforma mai realizzata in Italia”, nella definizione di Norberto Bobbio.
Durante la Resistenza Franco Basaglia aveva conosciuto il carcere come prigioniero politico, un episodio che tanto influenzerà le sue idee e le sue scelte future. “Quando sono entrato per la prima volta in carcere - dirà - ero studente di medicina e lottavo contro il fascismo (…) c’era un odore terribile, un odore di morte. Mi ricordo di aver avuto la sensazione di essere in una sala di anatomia dove si dissezionano i cadaveri (…) quando sono entrato per la prima volta in manicomio ho avuto quella stessa sensazione (…) ho avuto la sensazione che quella fosse un’istituzione completamente assurda, che serviva allo psichiatra che ci lavorava per avere lo stipendio a fine mese. A questa logica assurda, infame del manicomio noi abbiamo detto no”.
La Legge 180 è la prima legge quadro che impone la chiusura dei manicomi e regolamenta il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici (“Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o meno manicomi e cliniche chiuse - dirà lo stesso Basaglia intervistato da Maurizio Costanzo - è importante che noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c’è un altro modo di affrontare la questione; anche senza la costrizione” ).
Anticipa di pochi mesi la legge istitutiva il Servizio Sanitario Nazionale (23 dicembre) e e di pochi giorni la legge 194 relativa alla interruzione volontaria della gravidanza (22 maggio).
Tre leggi, una solo firma, quella di Tina Anselmi.
Nel 1977 la “Tina vagante” è anche tra i primi firmatari della legge italiana che apriva alla parità salariale e di trattamento nei luoghi di lavoro, nell’ottica di abolire le discriminazioni di genere fra uomo e donna (“La disoccupazione femminile - diceva nell’occasione - si mantiene costantemente più elevata della disoccupazione maschile (…) le donne, insieme ai giovani, rappresentano la quasi totalità degli impiegati nel lavoro nero (…) le donne sono occupate in numero notevole in attività marginali, stagionali e temporanee (…) il tasso specifico di attività femminile, anche se non diminuisce in modo rilevante, resta comunque fermo rispetto ad una ricerca di occupazione in continuo aumento”).
Profondamente credente, impronterà la sua attività politica sul principio della laicità firmando - perché questo imponeva la sua carica - la legge 194 nonostante le fortissime pressioni contrarie dalle gerarchie ecclesiastiche. Affermando il giorno dell’approvazione della Legge 180 ‘semplicemente’ che “l’articolo 32 della Costituzione vale per tutti”.
Anche per i ‘matti’.
“La follia - era solito dire Basaglia - è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia”.
“L’istituzione manicomiale - affermava in Morire di classe - ha in sé, nel suo carattere violento coercitivo discriminante, una più nascosta funzione sociale e politica: il malato mentale, ricoverato e distrutto nei nostri manicomi, non si rivela soltanto l’oggetto della violenza di un’istituzione deputata a difendere i sani dalla follia; né soltanto l’oggetto della violenza di una società che rifiuta la malattia mentale; ma è insieme, il povero, il diseredato che, proprio in quanto privo di forza contrattuale da opporre a queste violenze, cade definitivamente in balia dell’istituto deputato a controllarlo. Di fronte a questa presa di coscienza, ogni discorso puramente tecnico si ferma. Che significato può avere costruire una nuova ideologia scientifica in campo psichiatrico se, esaminando la malattia, si continua a cozzare contro il carattere classista della scienza che dovrebbe studiarla e guarirla?”.
“Ma, in tutti i modi - dirà - abbiamo dimostrato che si può assistere il folle in altra maniera, e questa testimonianza è fondamentale. Non credo che essere riusciti a condurre una azione come la nostra sia una vittoria definitiva. L’importante è un’altra cosa, è sapere ciò che si può fare”.
Si può, si deve fare.