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Felicia Impastato nasce a Cinisi il 24 maggio del 1916. Nel 1947 si sposa con Luigi Impastato, piccolo allevatore che durante il fascismo era stato inviato tre anni al confino per mafia, imparentato con il capomafia del paese Cesare Manzella. “Stai attento, perché gente dentro non ne voglio. Se mi porti qualcuno dentro, che so un mafioso, un latitante, io me ne vado da mia madre. Non faccio entrare nessuno”., questo aveva preteso Felicia dal marito.
Ma dopo la morte di Peppino apre la sua casa a quanti vogliono conoscere suo figlio: “Perché mi piace parlarci, perché la cosa di mio figlio si allarga, capiscono che cosa significa la mafia. E ne vengono, e con tanto piacere per quelli che vengono! Loro si immaginano: ‘Questa è siciliana e tiene la bocca chiusa’. Invece no. Io devo difendere mio figlio, politicamente, lo devo difendere. Mio figlio non era un terrorista. Lottava per cose giuste e precise”.
Il 9 maggio del 1978, mentre l’Italia è sotto choc per il ritrovamento a Roma del cadavere di Aldo Moro, a Cinisi - piccolo paesino della Sicilia affacciato sul mare a 30 chilometri da Palermo - suo figlio Peppino Impastato muore dilaniato da una violenta esplosione. Nato il 5 gennaio del 1948, durante gli anni del liceo, nel 1965, Peppino aderisce al Psiup e fonda il giornalino L’idea socialista. Su questa pubblicazione racconta, tra l’altro, la marcia della protesta e della pace voluta da Danilo Dolci nel 1967.
Il giornale viene sequestrato dopo pochi numeri e Peppino, lasciato il Psiup, inizia a collaborare con i gruppi comunisti locali, occupandosi in particolare delle battaglie dei disoccupati, degli edili e soprattutto dei contadini, che si vedono privati dei loro terreni per favorire la realizzazione della terza pista dell’aeroporto di Palermo proprio a Cinisi.
Dopo aver dato vita al circolo “Musica e cultura”, con il boom delle radio libere Peppino decide di fondarne una propria a Cinisi: Radio Aut. Nel programma Onda Pazza prende in giro i capimafia e i politici locali: il suo bersaglio preferito è don Tano Badalamenti (soprannominato Tano Seduto), erede del boss Cesare Manzella e parente di suo padre Luigi.
Nel 1978 Peppino decide di candidarsi alle elezioni comunali del suo paese nella lista di Democrazia proletaria. Assassinato nella notte tra l’8 e il 9 maggio a soli 30 anni, risulterà comunque eletto il 14 maggio con 260 voti (anche Felicia si reca a votare, violando il lutto che la vuole reclusa in casa). Stampa, forze dell’ordine e magistratura considerano in un primo momento la sua morte conseguenza di un atto terroristico suicida.
“I ricordi di quel periodo sono terribili - raccontava Giovanni Impastato, fratello di Peppino - È stato anche il giorno della morte di Aldo Moro. Per noi è stato un fulmine a ciel sereno, non ce l’aspettavamo. Ricordo che siamo anche stati trattati male dagli investigatori, che hanno perquisito le nostre abitazioni. Ci hanno preso per dei terroristi. Verso di noi sono stati brutali”.
Nel 2003, in occasione del venticinquesimo anniversario della morte del figlio, raccontava Felicia a Gabriella Ebano (Felicia e le sue sorelle, Ediesse 2005): “Cominciò con il Partito comunista. Venne una sera e disse: ‘Sai, fui promosso’. Lo zio gli fece un regalo e Peppino disse al padre: ‘Tu non me lo fai il regalo?’. ‘No, quando ti levi da questo partito, allora te lo faccio il regalo!’. Non lasciò il partito, non ha chiesto più niente al padre e uscì di casa. Poi il padre si convinse; diceva: ‘Va beh i comunisti!’. Quando invece Peppino parlò contro la mafia, no, convinzione niente! Però ci diceva a Badalamenti: ‘Tu non l’ha a ammazzare a mio figlio, tu ha da ammazzare a mia, no a mio figlio!’. E mio marito fu ammazzato (…). Poi, dopo sette mesi, quando mio figlio si portò candidò alle elezioni comunali, ammazzarono pure a lui. Facemo in questo sistema, dissero, come se fosse un terrorista”.
Contemporaneamente, però, comincia a delinearsi un’altra storia e la matrice mafiosa del delitto viene individuata anche grazie all’attività di Giovanni e di Felicia Bartolotta che rompono pubblicamente con la parentela mafiosa e rendono possibile la riapertura dell’inchiesta giudiziaria.
Le indagini si concluderanno solo nel 2002, con la condanna all’ergastolo di Tano Badalamenti, poi deceduto nel 2004. “È il primo compleanno che vivo con la pace nel cuore”, diceva il 24 maggio 2002 mamma Felicia, festeggiando i suoi ottantasei anni.
Scriverà la giornalista de l’Unità Sandra Amurri in un articolo del 2004 sulla morte di Badalamenti: “È ancora viva nella memoria dei cronisti che hanno assistito al processo, quella piccola donna, che gli anni hanno reso curva, vestita di nero, mentre saliva sul pretorio accompagnata dagli avvocati per rendere la sua coraggiosa testimonianza. Don Tano la osservava, muto, in video conferenza, mentre se ne stava seduto in una stanza del carcere americano”. Il magistrato Franca Imbergamo ricorderà così quel momento: nell'aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo.
“Era un momento storico perché abbiamo assistito al riconoscimento da parte di una madre coraggio e alla capacità delle istituzioni di darle una risposta. Era commovente ed emozionante perché Felicia portava con sé il dolore più grande per una donna, quello di vedere ucciso un figlio. E poi c’era in collegamento dagli Stati Uniti, in video, Gaetano Badalamenti, che la osservava. Abbiamo scritto secondo me una pagina di storia, della storia della lotta alla mafia”.
Una pagina di storia scritta grazie al determinante contributo di una piccola grande donna, che ricordiamo, insieme a Peppino, attraverso le splendide parole della poesia che Umberto Santino, fondatore e direttore del Centro di Documentazione Giuseppe Impastato, le dedicò nel 1979: “Questo non è mio figlio. Queste non sono le sue mani, questo non è il suo volto, questi brandelli di carne non li ho fatti io. Mio figlio era la voce che gridava nella piazza, era il rasoio affilato dalle sue parole, era la rabbia, era l’amore che voleva nascere, che voleva crescere. Questo era mio figlio quando era vivo, quando lottava contro tutti, mafiosi, fascisti, uomini d’onore, che non valgono neppure un soldo, padri senza figli, lupi senza pietà. Parlo con lui da vivo, non so parlare con i morti. L’aspetto giorno e notte, ora si apre la porta, entra, mi abbraccia, lo chiamo, è nella sua stanza a studiare, ora esce, ora torna, il viso nero come la notte, ma se ride è il sole che spunta per la prima volta, il sole bambino. Questo non è mio figlio, questa bara piena di brandelli di carne non è Peppino: qui dentro ci sono tutti i figli non nati di un’altra Sicilia”.
Felicia moriva, finalmente serena per aver ottenuto giustizia, il 7 dicembre del 2004. “Nel manifesto che questa notte abbiamo appeso sui muri di Cinisi - affermava sempre Umberto Santino nel saluto laico al suo funerale - abbiamo scritto: Ciao Felicia, non mamma Felicia come sarebbe stato più ovvio. Perché in questi anni non sei stata soltanto moglie (di un mafioso che, che a un certo punto ha cercato di difendere il figlio dalle mani degli assassini) e madre (di un rivoluzionario), ma donna per te, matura dentro te stessa, forte di una tua autonomia, di un tuo personale carisma che rendeva il colloquio con te, o anche un semplice saluto, un’esperienza preziosa e irripetibile”.