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Enrico Berlinguer moriva a Padova, 38 anni fa, l’11 giugno 1984. Nell’ottobre del 1943, appena maggiorenne, si iscrive, giovanissimo, al Partito comunista italiano, diventando segretario della sezione giovanile di Sassari. Nel 1945, dopo la Liberazione, è a Milano come responsabile della Commissione giovanile centrale del Pci.
Eletto membro effettivo del Comitato centrale e membro candidato della Direzione nel 1948, nel 1958 entra nella Segreteria del Partito per affiancare Luigi Longo. Entra in Parlamento per la prima volta nel 1968 e al XIII Congresso nazionale del Pci, che si tiene a Milano nel marzo del 1972, viene eletto segretario nazionale del Partito.
“Avanti, dunque, compagni! - diceva aprendo i lavori dell’assise parlando ai 1.043 delegati, rappresentanti di 1.521.028 iscritti - Impegniamo in questa lotta tutte le forze nostre, che sono presenti in ogni dove: dalle fabbriche ai campi, dalle scuole agli uffici, agli stessi apparati statali; dai quartieri delle città ai più sperduti comuni; nel mondo del lavoro e in quello artistico e culturale. E il nostro appello va anche a quei nostri compagni e fratelli emigrati costretti a cercare all’estero quel pane che le classi dirigenti hanno loro negato. È questo potenziale sterminato di energie che deve essere mobilitato, non soltanto per la prova elettorale che ci attende, ma per un obiettivo più ampio: quello di unire e organizzare i lavoratori italiani in classe dirigente, per costruire una nuova Italia, per avanzare, nella democrazia, verso il socialismo”.
È un uomo instancabile, che gli amici descrivono come timido e introverso. “Era tormentato - raccontava qualche tempo fa la figlia Bianca - si poneva delle domande, ma non era affatto un uomo triste. Era per certi versi giocoso, con noi figli era estroso, ci faceva fare cose stravaganti che ci divertivano molto”. Un uomo diventato icona al quale ancora - forse soprattutto - oggi si guarda con affetto e nostalgia. “Una persona perbene” nella definizione di chiunque lo abbia conosciuto.
È il segretario del compromesso storico con la Dc di Moro e dello strappo col Pcus, della ‘questione morale’ e del 34,4 per cento.
“Enrico Berlinguer parlava poco, ma è stato uno dei pochi politici che abbia mai conosciuto che manteneva le promesse. Una piccola cosa, ma che in politica è grande come una montagna”, diceva di lui Enzo Biagi.
“Berlinguer era un uomo che sosteneva con forza l’idea dell’etica nella politica - ricordava pochi giorni dopo la sua morte Luciano Lama - Ci credeva davvero. Ci sono quelli che non vogliono proprio sentire parlare di etica, anzi stabiliscono due categorie diverse: uno è il campo della morale, l’altro il campo della politica. Quindi politica come carriera, come successo, come potere, forse anche come corruzione. Poi la morale. Bene: questa scissione lui proprio non l’accettava, era il rovescio esatto della concezione che aveva dell’integrità. Certo, capita spesso che chi ha questa concezione della vita politica viene definito integralista, moralista. Lo è veramente se pretende di fare agli altri la lezione che magari non applica alla propria persona. Del resto il rispetto è sincero anche da parte dei ladri. Non è vero che i ladri disprezzano gli onesti, non è vero che i corrotti disprezzano gli integerrimi. Alla base di questo sentimento di solidarietà, di dolore sincero, c’è un sentimento profondo che riguarda un uomo che aveva una diversità: quella di essere pulito, quella di mettere gli interessi personali al di sotto di quello che lui considerava il bene del Paese”.
Un Paese che il giorno dei suoi funerali scende in piazza compatto e commosso per dire addio all’amico, al compagno, attraverso un lamento collettivo risuona in continuazione: “Enrico, Enrico”.
“Ci siamo accorti - dirà Natalia Ginzburg - che ognuno di noi aveva con lui un rapporto fiducioso e confidenziale, anche se ci eravamo limitati ad ascoltarlo nella folla d’una piazza. Fu un momento in cui, come aveva detto Benigni, 'il firmamento bruciava'. La sensazione che 'bruciava il firmamento', in quei giorni, l’abbiamo avuta tutti”.
Al funerale, a Roma il 13 giugno, partecipa una folla sterminata.
Dal palco parlano, tra gli altri, Giancarlo Pajetta e Nilde Iotti. A rendere omaggio alla salma va anche il nemico per eccellenza, Giorgio Almirante. “Sono venuto a rendere omaggio ad una persona onesta che credeva nei suoi ideali”, dirà.
Da Gorbaciov a Zhao Ziyang, da Marchais a Carrillo, ad Arafat, dai comunisti delle Filippine e di Israele, della Jugoslavia e della Corea, Berlinguer riceve l’attestato di leader internazionale.
“Se asciughiamo una lacrima - diceva Pajetta quel giorno - è per veder chiaro. Ricordate le sue ultime parole: lavorate. Compagno Berlinguer sappiamo come vuoi essere ricordato, ce lo hai gridato a Padova, con un ultimo sforzo”.
“Il mito di Enrico - scriveva Marco Damilano in un lungo articolo su l’Espresso sull’eredità di Berlinguer - è più vivo che mai. Si alimenta delle incoerenze, delle giravolte ideologiche, dei tradimenti dei suoi eredi. In un pantheon vuoto, in cui la confusione delle radici e dei riferimenti simbolici appare una babele più che uno sforzo di eclettismo culturale, tra neo-togliattiani e tardi epigoni dei fratelli Rosselli di Giustizia e libertà, la figura di Berlinguer continua a influenzare in profondità i nuovi leader, chissà quanto inconsci emulatori di un politico inimitabile, perfino negli aspetti minori”.
“No - scrivevano qualche anno fa i suoi ‘ragazzi’ - non ci manca Berlinguer in sé, noi non l’abbiamo conosciuto, non si può aver nostalgia di quel che non si è vissuto. Anche se ci sarebbe piaciuto viverlo. A noi manca la sensazione di pulizia, di impegno disinteressato, di bellezza genuina, di immacolata onestà che trasparivano da Enrico Berlinguer quando parlava, quando scriveva, quando lottava. E quel suo ultimo indimenticabile sorriso finale quando portò a termine il comizio a Padova”.
A noi manca quel sorriso rassicurante del quale oggi abbiamo tanto bisogno.