A un tiro di schioppo da Roma, tra i capannoni lasciati vuoti da una crisi feroce, è nata una piccola Silicon Valley biotech. Tra Pomezia e Castel Romano, verso la costa, alcune aziende private stanno sviluppando tre distinti vaccini contro il Covid. Alla Irbm si lavora speditamente, insieme all’istituto Jenner di Oxford, al vaccino prodotto dal colosso inglese AstraZeneca. Poco più in là, alla ReiThera, è in fase di studio un candidato vaccino italiano, nato in collaborazione con l’Istituto Spallanzani di Roma, che ha ricevuto finanziamenti dal Miur e dalla Regione Lazio. Alla Takis, insieme all’Università di Milano-Bicocca, è poi in fase di sperimentazione un altro vaccino che verrà prodotto da Rottapharm Biotech. Nello stabilimento Menarini, invece, si cerca addirittura una cura. Si sta testando un anticorpo monoclonale che, nelle speranze di ognuno, potrà sconfiggere definitivamente il coronavirus. Ma non è tutto. Un po’ più a sud, ad Anagni, in provincia di Frosinone, verrà prodotto il candidato vaccino Sanofi-Gsk, mentre in uno stabilimento poco lontano, alla Catalent, a breve saranno fabbricate milioni di fialette per contenere il siero AstraZeneca.
È un fiorire di studi e produzioni, insomma, a dire il vero un po’ inaspettato, ma che permette al Lazio di ritagliarsi un ruolo nella battaglia mondiale dei vaccini che da mesi si sta consumando sullo sfondo della pandemia. Tutto questo, però, si sta avverando in due zone industriali che hanno subito un fenomeno di accentuata deindustrializzazione e che sono tuttora in grande difficoltà. Lo dimostra la lunga teoria di stabilimenti sbeccati, orfani di lavoratori, che si susseguono senza soluzione di continuità lungo le arterie principali della regione. “Per noi la ricerca che si sta svolgendo in queste aziende è motivo di grande orgoglio - ci racconta Walter Cassoni, segretario generale della Filctem Roma sud, Pomezia, Castelli, davanti al grande stabilimento della Menarini Biotech di Pomezia -. Anche perché il nostro è da sempre un importante polo chimico-farmaceutico importante. Il problema è che, a parte Menarini, AlfaSigma e poche altre, le imprese farmaceutiche di eccellenza sono ormai tutte in mani straniere. La ricerca, che è il cuore pulsante dell’industria farmaceutica, oggi si fa sostanzialmente all'estero".
Ricercatori in fuga
In effetti, anche le società che stanno portando avanti studi e coltivazioni sui vaccini anti-covid nel Lazio lo fanno perlopiù a vantaggio di interessi stranieri. La Irbm lavora per una big pharma inglese; ReiThera, che sviluppa un progetto sbandierato come tutto italiano, è stata venduta tempo fa a Keires Ag, società finanziaria con sede a Basilea; ad Anagni si produrrà invece per conto della francese Sanofi e della britannica GlaxoSmithKline. Un intreccio di interessi internazionali che tra l’altro stringerà molt inodi da sciogliere quando si discuterà nel concreto di brevetti e di proprietà intellettuale. “È un grosso rischio - conferma Cassoni - perché qui prima si faceva ricerca di base. Mentre ora sul territorio sono rimasti perlopiù ‘pillolifici’, stabilimenti di pure confezionamento che rischiano di essere delocalizzati da un momento all’altro. Se la ricerca tendenzialmente resta, la semplice manifattura è invece facile da traslocare. È già successo, e sta succedendo ancora, anche in altri settori. Le imprese ci stanno lasciando”.
“La ricerca di base qui non si fa più - conferma Valter Ciancarella, tecnico di laboratorio e Rsu Filctem della Menarini, che sta lavorando proprio sull’anticorpo monoclonale contro il covid -. Sta succedendo anche nel resto del Paese, ma da queste parti è davvero lampante. Quando sono entrato io, 20 anni fa, c'erano anche dei progetti finanziati dallo Stato, adesso non c'è più nulla del genere. C’è solo un gruppo di persone che va in Europa e negli Stati Uniti a caccia di brevetti da sviluppare, per poi mandarli in produzione qui. Nessuno prova a inventare una molecola interessante che possa essere sviluppata direttamente da noi”. Così, alla fine, le menti migliori se ne vanno all’estero, “dove gli stipendi sono più alti e ci sono più possibilità”, e in zona resta solo chi si occupa di fabbricare pillole e flaconi.
Luoghi abbandonati
La fuga di menti e di imprese dal distretto di Pomezia, però, ha radici molto più lontane e di certo non riguarda solo il comparto farmaceutico. Come in molte altre aree del nostro Paese, infatti, la stretta del rubinetto della Cassa del Mezzogiorno ha inferto un primo colpo. Poi ci sono state le crisi successive, come quella iniziata nel 2008 e che si è trascinata per oltre un decennio. Una rappresentazione plastica di quello che è successo, nonostante i vaccini e gli anticorpi di oggi, è l’enorme cementificio in decadenza lungo Via del mare dove incontriamo Simone Cioncolini, segretario della Fillea locale. È mastodontico, grigio, decadente. Ruggine e muffa la fanno da padroni, e dalle finestre senza infissi volano via cornacchie e gabbiani. Fino al 2012 questa era la sede della Cevip, una grossa industria del gruppo Abbondanza. Produceva i ‘New Jersey’, le barriere autostradali che dividono le carreggiate, ma anche traverse per i treni dell'alta velocità e tunnel di servizio in cemento. Tutto materiale che resta ancora oggi a prendere pioggia in un grande piazzale di fianco.
“Qui lavoravano 90 persone, ma la proprietà non è riuscita a superare la crisi del 2008, che nel settore dell'edilizia s’è fatta sentire qualche anno dopo - spiega Cioncolini -. Di grandi edifici abbandonati come questo, però, ce ne sono a decine nei dintorni”. Sono il simbolo tangibile della deindustrializzazione del territorio e della mancanza di un progetto. “Perché ci sono state troppe scelte e investimenti sbagliati da parte degli imprenditori, che poi non hanno avuto il coraggio di rimettersi in gioco. E a pagare il prezzo più alto sono, come sempre, i lavoratori. Non c’è traccia di ripresa qui”.
Anche nel comparo metalmeccanico le cose non vanno molto meglio. “Oggi resistono solo alcuni grandi gruppi, che però si contano sulle dita di una mano: Leonardo, Abb Sace, Rina Consulting, Semikron, Northrop Grumman - ci racconta il segretario generale della Fiom Angelo Zanecchia -. Le piccole e medie imprese sono al collasso, e muoiono come mosche, lasciando per strada centinaia di lavoratori. Anche nelle imprese che vanno bene il lavoro di qualità è ormai un lusso. Qui a dominare è lo staff leasing, che non dà garanzie di alcun tipo”. Pure l’Agroalimentare sta vivendo una crisi profonda.
“Era una punta di diamante di Pomezia – ricorda Gianfranco Moranti, segretario Flai –. Ora restano alcuni marchi importanti a livello mondiale, come Fiorucci e Crik Crok, ma stabilimenti altrettanto decisivi come Sammontana e Montebovi hanno cessato l’attività. Ci sono tante, troppe cattedrali nel deserto.” Quando va in difficoltà l’industria, però, di solito a pagare dazio sono anche i servizi, e il commercio soffre, come ci conferma Gianni Lanzi, segretario Filcams: “Nel sud del Lazio diversi gruppi multinazionali e nazionali hanno dismesso interi pezzi della filiera. Sono entrati nuovi soggetti poco affidabili, e la crisi si è scaricata sui lavoratori, che hanno in molti casi perso diritti e tutele”.
Tutte queste criticità sono state accelerate dalla mancanza di infrastrutture. Arrivare a Pomezia è davvero complicato. “Per un’azienda decidere di stabilirsi qui è folle - ci racconta poi Stefano D'Andrea, segretario della Filt, mentre guida zigzagando tra il traffico e le buche della famigerata Pontina, l’incubo di tutti i pendolari -. Questa è la strada principale, è vecchia e malmessa, perennemente ingolfata. Per arrivare nella zona industriale ci sono anche la Laurentina e l'Ardeatina, ma non stanno messe molto meglio. Eppure la nostra resta una delle aree produttive più importanti della regione, anche se le infrastrutture sono un ostacolo serio”.
La stazione ferroviaria, ad esempio, sta a Santa Palomba, circa venti minuti di macchina da Pomezia e dalle sue industrie. “Le poche imprese che restano - continua D'Andrea - lo fanno perché qui c’è una professionalità diffusa tra le maestranze che è difficile da sostituire. Godiamo insomma di un equilibrio terribilmente precario, che va rinforzato con i trasporti. Ci sono anche dei progetti per trasformare la Pontina in un’autostrada e per la creazione di un interporto per lo scambio gomma-ferro, ma sono fermi da anni”.
Un hub delle scienze
Una situazione molto complicata, dunque. Ma per risolverla, forse, la ricerca contro il covid potrebbe davvero diventare una grande opportunità. Ne è convinto il giovane sindaco di Pomezia, Adriano Zuccalà, pentastellato eletto da poco, che gongola: “La Irbn ci ha portato sul tetto del mondo, dobbiamo puntare sul farmaceutico”. Ci crede anche il sindacato, che vede nella visibilità acquisita negli ultimi mesi una possibilità di rilancio dell’intero territorio. Secondo Alessandro Borioni, segretario generale della Filctem del Lazio, “le eccellenze regionali vanno supportate. Ci sono alcuni stabilimenti che stanno lavorando a pieno regime, ma bisogna fare in modo che questa occasione permetta un ricambio generazionale. Le aziende dovrebbero modificare i cicli produttivi per far fronte alle nuove esigenze che si stanno creando”.
“Abbiamo avanzato da tempo delle proposte alle istituzioni - ci spiega invece Claudia Bella, della segreteria della Camera del lavoro di Roma sud, Pomezia, Castelli -. Noi crediamo che sia necessario partire dalle specificità del territorio, ma bisogna fare sistema per rilanciare la ricerca e l'innovazione, e renderci così nuovamente attrattivi per investimenti pubblici e privati”. In tempo di covid, in un progetto come questo, il chimico-farmaceutico non può che assumere un ruolo da protagonista: “Vorremmo creare qui un hub delle scienze della vita. Siamo in una posizione strategica, a metà strada tra Roma e l'asse Frosinone-Latina. A poca distanza c’è anche l’Università di Tor Vergata, che potrebbe generare nuove sinergie. È il modo giusto per riprendere a innovazione in questo territorio”.
Ma a beneficiarne sarebbero anche gli altri comparti, grazie alla “rigenerazione urbana dei siti abbandonati, che potrebbero essere riconsegnati alla collettività”, oppure con “sinergie con la zona agricola dei Castelli Romani, sperimentando forme di filiera corta e sistemi di tracciabilità”. Senza dimenticare la riqualificazione del settore turistico del poco lontano litorale romano, in forte difficoltà dall’inizio della pandemia.
Le proposte insomma sono molte. E sono tutte già sul tavolo. “Vogliamo avviare un percorso condiviso, e chiamare a raccolta tutte le forze del territorio”, conclude Claudia Bella. Il sindacato sta cercando di istituire una sorta di “patto territoriale per lo sviluppo e la buona occupazione”, ma finora “un vero e proprio tavolo non si è mai concretizzato”. Bisogna fare presto, perché la finestra delle opportunità si sta chiudendo in fretta: “L’occasione che ci fornisce la ricerca contro il covid è irripetibile. E poi ci sono i fondi del Recovery fund e della nuova programmazione strutturale europea. Sono risorse preziose, che non vanno sprecate”.