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“D’estate, in campagna, alle 10 di mattina, sotto ai tendoni che coprono le piante, in mezzo ai veleni che usano per trattare l’uva e che ti entrano nelle narici, si muore di caldo. A dirlo è niente. È viverlo. Ti manca l’ossigeno”. A raccontarcelo, un venerdì pomeriggio, è Silvana Lampo da Bisceglie, Puglia. 49 anni appena compiuti. Bracciante nei campi di Trani per l’azienda Trani Fruit. La sua voce, come la sua vita, è impastata di rabbia e fatica. Una vita sempre in lotta. Per crescere due figlie da madre sola. Per portare a casa il pane, ma non chinare mai la testa. Nelle sue parole, nella sua vita, vive e muore ogni giorno Paola Clemente, bracciante anche lei, morta nei campi esattamente cinque anni fa. Diventata il simbolo di questo sistema avvitato su sfruttamento e profitto. Un simbolo potente nella battaglia dei sindacati che ha portato all’approvazione della legge 199 del 2016, la legge contro il caporalato.
“Per anni ho fatto il lavoro dell’acinellatura, quello stesso lavoro che ha ucciso Paola Clemente. Si svolge sotto a teloni di gomma e plastica, con il fogliame degli ulivi che scherma qualsiasi refolo d’aria. Prima si tolgono i chicchi più piccoli per dare agio agli altri di ingrandirsi. Poi, giunti a maturazione, si fa il taglio dei grappoli e l’imballaggio nelle cassette. Tutto avviene sotto al tendone. Da fine giugno più o meno si arriva a questo periodo. Se la temperatura è 30 gradi, lì sotto sembrano 60. L’afa ti toglie il respiro. Ti toglie l’aria. Andare oltre le 11 sarebbe vietato, ma il caporale non ti fa smettere mai prima delle 12:30. E sai quanti colleghi ho visto morire di infarto come la signora Clemente? Ho visto gente svenire, sentirsi male, morire di ictus, ischemia. Ho respirato veleno. Quando venimmo a sapere della morte della signora Clemente, piangemmo tutte, fu un momento terribile”.
Il 19 agosto scorso, mentre lavorava, Silvana si è sentita male. Ischemia cerebrale. Terapia intensiva e mesi di sofferenze e recupero. Poi ha ripreso il lavoro. Dai campi l’hanno spostata nel magazzino, a imballare frutta e verdura per la grande distribuzione. La sua giornata inizia con la sveglia alle tre di notte. Alle 4:30 si arriva al lavoro. Alle tre del pomeriggio finisce e si torna a casa. In tutto una pausa di mezz’ora a metà mattina, intorno alle 10. “Quando arrivi a casa non hai voglia di fare niente. Solo di metterti a dormire. In magazzino sistemiamo la frutta raccolta in campagna, pesche, albicocche. La imballiamo per i supermercati. Lì si lavora molto meglio, sei all’interno, coperta, non sei esposta al sole. Prima dell’alba, quando arriviamo, i caporali ci urlano di sbrigarci. Non trovi tutto pronto, non inizi subito il lavoro. Devi preparare. Scaricare la merce dai tir, casse, sgabelli, spugne. Tu vieni pagato dalle 5:30 alle 12:30, ma in realtà lavori molte ore prima e anche dopo, quando devi rimettere tutto a posto. Ore che non ti pagano. Se ti rendi disponibile, lavori tutto l’anno, ma con contratti stagionali. Ma se stai a casa non ti pagano. A me è una settimana che mi lasciano a casa perché ho protestato contro la decisione di anticipare ancora l’ora di entrata in magazzino”.
Quanto ti pagano? “La paga è di 48 euro al giorno. Se fossi un uomo sarebbe 53. Ed è una vera ingiustizia. Perché siamo più noi donne a fare lavori pesanti. Veniamo sfruttate in tutti i modi. E se ne approfittano ancora di più, soprattutto se sei una donna sola, se devi lavorare, se sei debole”.
Da quanto tempo fai questa vita? “Ho iniziato vent’anni fa. Dopo qualche anno trovai lavoro in un’altra azienda, un’industria, un tomaificio per la produzione di scarpe. Poi la ditta fallì, lavoro non ce n’era e sono tornata nei campi. Dieci anni in Extrafrutta, un gruppo di Bisceglie dove c’è stata una delle prime grandi inchieste giudiziarie per caporalato. Da un paio d’anni sono qui a Trani Fruit”.
E i caporali ci sono? “Certo. I caporali sono bestie, non sono uomini. Bestie. Non rispettano le donne. E quando vedo che una collega sta zitta e subisce, intervengo io. Io, separata da vent’anni, mi sono dovuta difendere da sola, ma non ho mai leccato il culo a nessuno. Se lo fai ti trattano bene, se ti ribelli ti mettono a fare i lavori più pesanti. È un ambiente brutto. Decide sempre il caporale. E se trovi un caporale che ce l’ha con le donne sei finita. Per questo noi donne dobbiamo ringraziare la Flai e la Cgil che lottano contro il caporalato insieme a noi. Ce la stiamo mettendo tutta, anche se coinvolgere le mie colleghe non è facile. Hanno paura, hanno famiglia, non vogliono perdere il lavoro. Mi è persino capitato che le stesse vittime che cercavo di difendere si mettessero contro di me. E quando il caporale se ne accorge, gode. Per questo cerco di spiegare alle mie colleghe che tutte ci svegliamo la notte per guadagnarci il pane. Che devono capire che il mio male è il loro”.
Per quanto ancora potrai fare questa vita? “Più a lungo possibile. Vorrei andare avanti più a lungo possibile. Dopo il malore dello scorso anno, so che non ho molto tempo. Finché posso e ci riesco devo lavorare. Non c’è niente in giro per noi donne cinquantenni, senza un titolo di studio, un diploma, un attestato, donne sole, separate. Per sopravvivere sei costretta a stringere i pugni e i denti e andare avanti”.