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Il 27 maggio del 1923 nasceva a Firenze don Milani, la cui figura è strettamente legata all’esperienza didattica rivolta ai bambini poveri nella disagiata e isolata scuola di Barbiana (frazione di Vicchio), un piccolo borgo sperduto sui monti della diocesi di Firenze.
“Cara signora - scriveva Don Milani in collaborazione con i suoi studenti nel volume Lettera ad un professoressa pubblicato nel 1967 subito dopo la sua morte, un durissimo atto d’accusa nei confronti di una scuola che non si curava degli allievi in difficoltà perché poveri - lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che 'respingete'. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate. Due anni fa, in prima magistrale, lei mi intimidiva. Del resto la timidezza ha accompagnato tutta la mia vita. Da ragazzo non alzavo gli occhi da terra. Strisciavo alle pareti per non esser visto. Sul principio pensavo che fosse una malattia mia o al massimo della mia famiglia. La mamma è di quelle che si intimidiscono davanti a un modulo di telegramma. Il babbo osserva e ascolta, ma non parla. Più tardi ho creduto che la timidezza fosse il male dei montanari. I contadini del piano mi parevano sicuri di sé. Gli operai poi non se ne parla. Ora ho visto che gli operai lasciano ai figli di papà tutti i posti di responsabilità nei partiti e tutti i seggi in parlamento. Dunque son come noi. E la timidezza dei poveri è un mistero più antico. Non glielo so spiegare io che ci son dentro. Forse non è né viltà né eroismo. È solo mancanza di prepotenza”.
Su Lettera a una professoressa si terranno seminari in tutte le università occupate, alla Biennale di Venezia del 1968 diventerà uno spettacolo teatrale contro l’autoritarismo, gli insegnanti lo useranno per sperimentare nuove forme di didattica.
“È un libro veramente bello - ne dirà Pier Paolo Pasolini - la vitalità, leggendolo, aumenta in modo vertiginoso, ed è questo il metodo pratico, essenziale, per giudicare la bellezza di un libro. Lettera ad una professoressa è scritta con grande grazia, grande precisione, con assoluta funzionalità, non soltanto, ma con grande spirito, quasi come un libro umoristico, fa ridere e nello stesso tempo, immediatamente dopo aver riso, viene un nodo alla gola, un groppo alla gola, addirittura le lacrime agli occhi, tanta è la precisione e la verità del problema che si pone, il problema della scuola italiana. Oltretutto c’è anche coscienza stilistica, perché vi è contenuta una delle più straordinarie definizioni di quello che deve essere la poesia: un odio e un senso di vendetta verso gli altri che - una volta approfondito e liberato - diventa amore. Dunque di Lettera ad una professoressa devo dire tutto il bene possibile, non mi è mai capitato di essere così entusiasta di qualcosa e di sentirmi obbligato e costretto a dire agli altri: leggetelo. È un libro che riguarda la scuola, nello specifico, ma nella realtà riguarda la società italiana, l’attualità della vita italiana”.
Don Lorenzo Milani sarà anche tra i primi a denunciare la necessità e virtù dell’obiezione di coscienza all’inquadramento militare e alla guerra. È il febbraio del 1965, i cappellani militari della Toscana rilasciano su La Nazione un comunicato che, nel ricordare e celebrare i caduti di tutte le guerre, definisce “un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza, che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà”.
A loro risponde don Milani con una lettera che sarà ripresa anche dal periodico comunista Rinascita: “Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri - scrive il sacerdote - allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto. Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri”.
A questo punto don Milani si concentra non solo e non tanto sul Vangelo e sulla contrarietà di Gesù alla violenza ma sui principi stabiliti dalla nostra Carta fondamentale: “Articolo 11 'L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli...' . Articolo 52 'La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino’. (…) Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo? E se l’ordine era il bombardamento dei civili, un’azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l’esecuzione d’ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l’ordine d’un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari? Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni guerra. Quando ve ne sono capitate davanti agli occhi o avete mentito o avete taciuto. (…) Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verità e l’errore, fra la morte di un aggressore e quella della sua vittima”.
Alla risposta ai cappellani militari reagiranno in molti, ma sarà un esposto presentato alla procura di Firenze da un gruppo di ex combattenti “profondamente e dolorosamente feriti nel loro più sacro patrimonio ideale di cittadini e di soldati” a dare il via all’azione legale contro il priore di Barbiana e il direttore di Rinascita, Luca Pavolini. L’accostamento non renderà felice Don Milani che borbotterà: “È dunque per motivi procedurali cioè del tutto casuali ch’io trovo incriminato con me una rivista comunista. Non ci troverei da ridire nulla se si trattasse d’altri argomenti. Ma essa non merita l’onore d’essersi fatta bandiera di idee che non le si addicono come la libertà di coscienza e la non violenza”.
Il sacerdote subirà per la vicenda due processi per apologia di reato: il primo di assoluzione con formula piena ‘perché il fatto non costituisce reato’; il secondo, in appello, di condanna con ‘reato estinto per la morte del reo’. Luca Pavolini sarà condannato a 5 mesi e 10 giorni: “In appello - racconta - sono andato solo, perché purtroppo don Milani era già morto. E naturalmente mi hanno condannato: a cinque mesi e dieci giorni. Ma non si sono accorti che la condanna veniva a cadere sotto amnistia. E l’amnistia è stata applicata dalla Cassazione”.
Le motivazioni della sentenza non saranno mai pubblicate. Pubblica, invece - e bellissima - è la lettera ai giudici di don Milani.
Io sedevo davanti ai miei ragazzi nella duplice veste di maestro e di sacerdote e loro mi guardavano sdegnati e appassionati. Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non avevo bisogno di far notare queste cose ai miei ragazzi. Le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita. Non potevo tacere. Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c'è scritto grande ‘I care’. E il motto intraducibile dei giovani americani migliori. ‘Me ne importa, mi sta a cuore’. E il contrario esatto del motto fascista ‘Me ne frego’. Quando quel comunicato era arrivato a noi era già vecchio di una settimana. Si seppe che le autorità civili, né quelle religiose avevano reagito. Allora abbiamo reagito noi. Una scuola austera come la nostra, che non conosce ricreazione né vacanze, ha tanto tempo a disposizione per pensare e studiare. Ha perciò il diritto e il dovere di dire le cose che altri non dice. E l’unica ricreazione che concedo ai miei ragazzi. Abbiamo dunque preso i nostri libri di storia (umili testi di scuola media, non monografie da specialisti) e siamo riandati cento anni di storia italiana in cerca d’una ‘guerra giusta’. D’una guerra cioè che fosse in regola con l’articolo 11 della Costituzione. Non è colpa nostra se non l’abbiamo trovata.