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Su 60.166 detenuti presenti nelle nostre carceri, solo 20 mila lavorano. Di questi, 17.042 sono alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, 3.029 per altri datori. Pochi, pochissimi, specie se si considera che il lavoro è uno degli elementi del trattamento rieducativo: la legge infatti stabilisce che ai detenuti vada assicurata un’occupazione (art. 15 l. 354/75).
I dati, forniti dal ministero della Giustizia e riferiti alla fine dello scorso anno, sono confermati dall’osservatorio di Antigone, che nel 2023 ha visitato 99 istituti: la media delle persone che lavorano è risultata del 32,6 per cento, quelle dipendenti da datori esterni sono solo il 3,2.
Da aggiungere che mentre ci sono carceri dove si registrano iniziative d’inserimento lavorativo di una certa rilevanza, in altre le possibilità sono davvero ridotte e si limitano al lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria.
Poche ore e pochi giorni
Non solo. “I numeri non ci dicono quanto effettivamente lavorino quelle persone – spiega Denise Amerini, responsabile dipendenze e carcere dell’area stato sociale e diritti Cgil -: sappiamo che per i detenuti dipendenti dall’amministrazione il lavoro si svolge per poche ore al giorno, per pochi giorni alla settimana o al mese. Questo rende, di fatto, indispensabile interpretare correttamente i dati perché non tengono conto del quanto e del come: può considerarsi occupata una persona che lavora, per fare un esempio, due mesi in un anno, e magari in maniera non continuativa?”.
Senza contare che chi è alle dipendenze dell’amministrazione fa un’attività di tipo “domestico”, svolge compiti necessari alla gestione degli istituti: cucina, lavanderia, distribuzione dei pasti, manutenzione ordinaria dei fabbricati, con scarsissimo se non nullo contenuto professionalizzante, attività che non preparano affatto al mondo di fuori.
Doppio potere
“Se il datore di lavoro è lo stesso ente che ha un potere detentivo e punitivo sulla persona, il rapporto non potrà mai essere equilibrato – fa notare Oscar La Rosa, socio e fondatore di Economia Carceraria -. Un equilibrio che invece è più facile trovare quando il datore è esterno e si applica un contratto. Il secondo problema è rappresentato dalle ore lavorate: l’amministrazione preferisce far lavorare per due ore quattro persone, piuttosto che una per otto ore”.
Lavoro senza tutele
“Anche questo è un fattore che deve far riflettere – aggiunge Amerini -, perché mentre chi lavora per imprese e cooperative esterne ha accesso alla retribuzione e alle tutele contrattuali previste dal contratto collettivo di riferimento, chi lavora alle dipendenze dell’amministrazione ha una retribuzione che corrisponde ai 2/3 di quella contrattuale, e non ha tutte le tutele previste da un compiuto rapporto di lavoro. Prova ne sono i numerosi ricorsi che la nostra organizzazione, con l’Inca, ha promosso per il riconoscimento della Naspi, e con esito positivo”.
E talora senza salario
C’è poi ancora la prassi di inserire detenuti in lavori di pubblica utilità, per i quali non è previsto un salario, ma solo, e non sempre, un rimborso spese. “Anche su questo la Cgil ha espresso giudizio negativo – dice Amerini -, perché è solo riconoscendo tutti i diritti legati alla prestazione che questa assume davvero un valore risocializzazione, e permette di passare dalla condizione di detenuto-lavoratore a quella di lavoratore-detenuto, titolare di diritti”.
I soldi servono in carcere
La questione dello stipendio mensile non è secondaria. “In carcere i soldi servono, anche se sembra strano – afferma La Rosa -. Il vitto non è buonissimo e se vuoi comprarti qualcosa hai bisogno di soldi. Ti passano beni per l’igiene ma se hai bisogno di più dentifricio o carta igienica, hai bisogno di soldi. Se eri l’unica persona che portava a casa un reddito, legale o illegale che fosse, adesso la tua famiglia è rimasta senza. E poi ci sono i parenti che, se vogliono venire a trovarti, a volte devono affrontare lunghi viaggi e di conseguenza costi”.
In questo contesto si colloca il disegno di legge elaborato dal Cnel che ha istituito uno specifico segretariato, che prevede l’integrale applicazione dei contratti collettivi di riferimento, sottoscritti dalle organizzazioni sindacali più rappresentative, e il superamento del lavoro non retribuito.
Le falle del ddl Sicurezza
“Preoccupa l’aver inserito nel ddl Sicurezza – prosegue Amerini - anche l’estensione dell’apprendistato professionalizzante, così come introdotto dal Jobs Act, cioè senza limiti di età, ai condannati e gli internati ammessi alle misure alternative e ai detenuti assegnati al lavoro esterno. Questo provvedimento è contrario al valore e al significato che deve avere il lavoro dei detenuti. Oltre a ridurre i costi per le aziende, si diminuiscono diritti e tutele, come se il lavoro non fosse davvero un diritto. E il suo valore di risocializzazione non si sostanziasse nel pieno riconoscimento di diritti e doveri, ma l’assunzione di persone in situazione di maggiore bisogno, o fragilità, possa essere legata esclusivamente a incentivi economici, sgravi fiscali, e a una retribuzione ridotta”.