Fabio Appetiti è dirigente responsabile delle relazioni istituzionali dell’Aic – l’Associazione Italiana Calciatori – nonché consigliere della Serie B femminile. Dopo il fallimento della nostra nazionale a Berlino, parliamo con lui del nostro sistema calcio. Come riformarlo? Da dove ripartire?

Partiamo dal fatto noto: l’Italia è stata eliminata dalla Svizzera agli ottavi degli Europei, con una partita dominata da loro. Questo, oltre alla delusione, ha fatto capire a tutti ciò che era già latente: nel calcio italiano c’è molto che non funziona. Che lettura ti senti di dare?

L’eliminazione è stata una grande delusione sportiva per tutti: dopo il gol di Zaccagni all’ultimo minuto con la Croazia ci eravamo illusi che il cammino fosse diverso. Va detto però che l’Italia non era tra le formazioni più accreditate e la Svizzera non era la Cenerentola d’Europa, infatti è uscita con l’Inghilterra ai rigori. Certo, l’Italia doveva fare di più: Spalletti, che resta uno dei più grandi tecnici italiani e europei, non è riuscito a dare quell’identità che di solito imprime alle sue squadre. C’è stato qualche errore, ma non condivido la gogna post sconfitta perché dieci mesi fa la scelta del presidente Gravina fu salutata da tutta Italia come la migliore possibile. Poi, naturalmente, capisco la delusione. Dopo l’eliminazione – ecco il punto – come sempre in Italia sono partiti processi e polemiche, iniziando ad analizzare i mali del calcio italiano, ma è stata fatta molta confusione nelle responsabilità e nei ruoli. In premessa voglio dire che gli aspetti negativi vanno affrontati sempre, non solo dopo le sconfitte e per esempio mi fa piacere sottolineare come in Aic, grazie alla lungimiranza del Presidente Calcagno, il problema dell’eccesso di calciatori stranieri e delle storture causate dal decreto crescita sono state poste dopo l’Europeo vinto nel 2021, non oggi.

Quali sono i problemi principali?

Non stiamo attraversando una fase di grandi talenti: in serie A la platea dei calciatori italiani selezionabili oggi è molto ridotta. Basti pensare che nel 2006, l’anno della vittoria dei Mondiali, giocava in A il 70% di italiani e il 30% degli stranieri. Oggi le cifre sono ribaltate, abbiamo il 70% di stranieri. Inoltre ci sono problemi atavici legati alle infrastrutture degli stadi, al forte peso debitorio del sistema professionistico e ad una conflittualità interna che non sempre aiuta politiche di sistema.

Uno dei nodi riguarda il rapporto tra la Lega di Serie A, la Figc il governo e gli organi di informazione. Ci spieghi meglio cosa succede e perché questo non va bene?

Il calcio non solo è lo sport più popolare, ma uno degli asset più importanti del Paese. Spesso si fa confusione nelle responsabilità anche per via di una informazione poco vogliosa di approfondire: in questo momento si accusa il presidente Gravina di chissà quali responsabilità, ma le “colpe” vanno divise in modo differente. Nei confronti dei vivai e di tutta la filiera dei campionati professionistici minori le società professionistiche, i grandi club in particolare, hanno dimostrato disinteresse, preferendo scegliere calciatori stranieri non più in base al valore tecnico aggiunto, come accadeva negli anni 80, ma perché semplicemente ritenuti più convenienti grazie alle agevolazioni fiscali presenti nel nostro sistema dal 2019. Da parte sua, la Lega di Serie A, che è la confindustria del nostro calcio, non considera affatto i bisogni della Nazionale e le necessità del sistema calcio nel suo complesso tanto è vero che da tempo sta spingendo per staccarsi dalla Figc. È una lega che ha poca voglia di riformarsi, di darsi una governance manageriale e i proprietari del pallone (non tutti, ndr) dovrebbero essere più collaborativi tra di loro e con le altre componenti. Il debito per esempio non è colpa della Figc, ma dei club che non gestiscono nel modo migliore i propri bilanci.

In questo quadro come si inseriscono le decisioni politiche?

Le scelte della politica non hanno aiutato. Il simbolo è il decreto crescita, ovvero la legge del sottosegretario Giorgetti del 2019, che detassava l’acquisto dei calciatori stranieri: ha avuto effetti nefasti per il nostro calcio portandoci alle percentuali che ho citato prima di presenza di calciatori stranieri. Questo governo era partito con l’ idea condivisibile di una commissione in Senato per la riforma del calcio con un coinvolgimento di tutte le componenti, ma ora sta portando avanti per decreto una Commissione a nomina governativa per il controllo dei conti dei club che mette a rischio l’indipendenza dei controlli e dall’altra una norma per la secessione della Serie A da tutto il sistema federale, che sarebbe la morte di ogni principio solidaristico nel sistema. Più che i controlli bisogna modificare gli indici sui quali si basano i bilanci delle squadre di A: introducendo indici più stringenti a cui attenersi, oggi il debito della massima serie non sarebbe oltre i cinque miliardi di euro.

Chiunque ha visto la brutta Italia agli Europei, dall’esperto all’uomo della strada, si è posto il problema dei vivai. Come si fa a costruire dei calciatori giovani che siano validi?

Sui vivai, quando si perde, c’è sempre la retorica che servono più giovani e che mancano i talenti. Finite le partite della Nazionale però a pochi interessa capire come formare i talenti o come cambiare le leggi sbagliate che non aiutano la tutela del patrimonio calcistico italiano. Per esempio: perché non mettere una detassazione per i club che lavorano nei settori giovanili, o per i formatori e i tecnici? Le misure da prendere sarebbero molte. Peraltro le nostre nazionali giovanili hanno ottenuto ottimi risultati in questi anni, ma se poi i ragazzi in Serie A non giocano tutto ciò non funziona. Da parte nostra, come Associazione Calciatori, ci siamo battuti fortemente contro il decreto crescita: è un’anomalia che un Paese che vuole far crescere talenti vada a detassare l’arrivo degli stranieri. Ovvio che quando poi vado a cercare la base selezionabile per la nazionale, questa sia molto limitata.

Il calcio ovviamente non è solo la massima serie. C’è anche e soprattutto un vasto mondo di dilettanti, ma non per questo lavoratori minori, anzi. Su tale terreno si gioca la partita della riforma. Qual è la situazione?

Il principio di base è: bisogna rovesciare la piramide. Le società di serie A oggi pensano che loro producono e tutti i soldi appartengano a loro, ma la verità è che la A esiste solo se esiste un calcio di base e un movimento diffuso nei territori con una sua forte dimensione popolare. Oggi il calcio esiste non perché ci sono Presidenti mecenati, ma perché in Italia ci sono 4 milioni di abbonati alle pay-Tv che finanziano il sistema e che peraltro spesso non sono neanche così tutelati. Occorre aiutare il mondo dei dilettanti con strutture, finanziamenti, detassazioni e con una grande sinergia con la scuola: se siamo d’accordo che il calcio sia così importante, allora va sostenuto con serietà, per aiutare tutto il movimento, a cominciare dalla base.

Volevo fare un passaggio sul calcio femminile, di cui ti occupi e che resta una risorsa fondamentale. Anche in questo caso a che punto siamo, quali sono i problemi e come migliorare?

Il calcio femminile ha conosciuto in questi anni una grande espansione, soprattutto grazie alla battaglia di Sara Gama e compagne per il professionismo e all’impegno del Presidente Gravina e della Figc, prima federazione ad adottare il professionismo per le atlete. In termini di diritti è stata una vittoria importante per la parità di genere, che ha portato a compimento una lotta che va oltre lo sport, con un valore culturale per tutta la società italiana. È cresciuta l’attenzione sui media e il sostegno della Divisione calcio femminile in Figc. Le televisioni fanno ancora fatica negli ascolti, ma ora le partite della A femminile vengono trasmesse una a settimana dalla Rai e le altre da Dazn; insomma la situazione è molto migliorata e abbiamo un po’ scardinato la barriera, ma bisogna ancora lavorare molto. Nonostante tutto resta ancora uno sport di nicchia, le praticanti sono ancora poche, va allargata la platea insieme alla partecipazione di media, sponsor e tifosi.

Secondo i dati Eurostat il settore calcio in Italia dà lavoro a circa 390.000 persone, sfiorando i cento miliardi di euro di ricavi. Questi occupati e occupate rappresentano lo 0,5% del Pil nazionale e siamo al 22esimo posto nella Ue. Un settore importante, certo, ma secondo te si può fare di più?

Spesso il calcio non viene seguito dal punto di vista legislativo per ciò che sono le sue reali necessità. Pensiamo a tutti gli addetti ai lavori, a tutte le professioni che ruotano attorno a questo mondo - vedi l’informazione - oppure pensiamo al contributo fiscale che dal calcio entra nelle casse dello Stato. È un asset che ha anche un enorme valore sociale, perché un campo di calcio si trova ovunque sul territorio e la squadra della propria città, piccola o grande che sia, diventa un punto di riferimento e un sentimento per tante persone. Invece non ci sono mai stati grandi interventi dei governi modello Gran Bretagna, solo misure spot, e anche questo esecutivo sembra più interessato a chi sarà il prossimo presidente della Figc, meno a fare provvedimenti strutturali. Le commissioni per me vanno fatte per generare politiche e riflessioni, non per creare poltrone, spesso inutili. In definitiva la politica può essere al servizio di questo mondo se lo rispetta e ne ascolta i bisogni, ma bisogna liberare il calcio dai conflitti d’interesse da cui è permeato e tornare alla collaborazione virtuosa, lavorando insieme tra soggetti apicali e strutture di base con il solo obiettivo di fare il bene dello sport più amato dagli italiani e le italiane.