Il vaccino anti-covid, di cui è lentamente iniziata un'inoculazione di massa, è senz’ombra di dubbio un'arma decisiva nella lotta contro la pandemia. Eppure, a detta di molti, da solo non basterà. I ritardi nell'approvazione dei candidati sieri di Sanofi e AstraZeneca/Oxford lo dimostrano. Ma anche senza ulteriori intoppi si stima che i primi effetti significativi potrebbero manifestarsi solamente a fine marzo.
Esistono però altri possibili farmaci, potenti e specifici, contro il coronavirus. Si chiamano anticorpi monoclonali, e in almeno quattro versioni sono già in fase avanzata di studio. In due casi sono già stati approvati da alcuni governi. Il primo, il bamlanivimab, è stato realizzato dall'azienda biotech canadese AbCellera, in collaborazione col gruppo statunitense Eli Lilly, approvato in Stati Uniti, Canada, Israele ed Ungheria. Il secondo è il cocktail prodotto dalla società americana Regeneron che fu utilizzato dal presidente Usa Donald Trump in prima persona, con risultati piuttosto soddisfacenti. Entrambi hanno infatti già ottenuto la concessione per uso in emergenza dall'ente americano per il controllo sui farmaci, la Food and Drug Administration (Fda).
Pure la multinazionale inglese Astrazeneca, già nota per il vaccino, ha un anticorpo monoclonale in stadio avanzato di sviluppo, mentre per quanto riguarda l'Italia e il resto dell’Ue bisogna ancora aspettare. L’utilizzo degli anticorpi monoclonali è ancora in attesa di autorizzazione da parte dell’European medicines agency, evidentemente più fiscale e meticolosa rispetto all’omologa americana.
Cos'è, come funziona
Un anticorpo è una molecola che ha il compito di riconoscere gli invasori, in particolare batteri e virus, per permettere all'organismo di neutralizzarli. Il sistema immunitario ne produce un gran quantità di tipi differenti, pronti a identificare il nemico e sconfiggere l’infezione. Gli anticorpi monoclonali vengono prodotti in laboratorio per essere tutti identici tra loro, quindi basta identificare un anticorpo particolarmente efficace e, producendone in massa copie perfette, ci si trova tra le mani un farmaco molto efficace. Da sempre destinata all'oncologia, questa cura ora viene studiata anche per il coronavirus. Secondo quanto recentemente riferito all'Ansa dal farmacologo Carlo Centemeri, della Giovanni Lorenzini Medical Foundation Mi-Ny, e dal virologo Francesco Broccolo dell'Università di Milano Bicocca, gli anticorpi monoclonali sono “una potentissima componente dell'arsenale per trattare i pazienti infetti e sintomatici, subito dopo aver contratto il virus”. Perché riducono il rischio di ospedalizzazione o, laddove il paziente si trovasse già ricoverato, ne stabilizzano la condizione, intervenendo sulla sindrome indotta dal virus.
Il ruolo dell’Italia
Così come sta accadendo per i vaccini, l’industria farmaceutica italiana, e più precisamente quella laziale, si sta ritagliando un ruolo eminente nella produzione degli anticorpi. Dai primi di dicembre la Bsp Pharmaceuticals di Latina ne produce circa 100 mila dosi al mese per conto di Eli Lilly dedicate ai Paesi in cui è già stato autorizzato. La produzione italiana a regime nel 2021 sarà di circa 2 milioni di flaconi. Alla Menarini di Pomezia, invece, in collaborazione con lo Spallanzani, si sta sviluppando l'anticorpo del Monoclonal antibody discovery lab della Fondazione Toscana Life Science, ente non profit di Siena diretto dal luminare Rino Rappuoli. Su questo progetto tutto italiano da marzo il governo ha investito 380 milioni di euro, mentre a inizio dicembre lo stabilimento ha ricevuto la visita entusiastica del ministro della Salute Roberto Speranza. La produzione vera e propria, però, salvo problemi inizierà solo a primavera. Anche se, a detta dei suoi creatori, questo farmaco promette di rivelarsi il più efficace tra quelli in fase di studio. I test clinici, in ogni caso, dovrebbero partire a breve.
“La scelta è caduta su di noi – ci racconta il tecnico di laboratorio e Rsu Filctem della Menarini Biotech Valter Ciancarella, che sta lavorando proprio sull'anticorpo monoclonale italiano – perché abbiamo un know-how molto alto e siamo in grado di coltivare grosse quantità di farmaco. Così facendo possiamo accorciare i tempi”. La Menarini mette a disposizione dell’anticorpo italiano “un impianto chimico che permette di fermentare fino a 1.500 litri di soluzione, e personale altamente specializzato su questo tipo di lavoro.”
La ricerca se ne va
Un’eccellenza, insomma, ma che rischia di essere una mosca bianca in un settore, quello della ricerca, che in Italia soffre moltissimo. “Sì, noi siamo un'eccezione – racconta ancora Ciancarella – perché la nostra ricerca di base non c’è più, è praticamente scomparsa”. Le aziende italiane, infatti, si limitano ormai ad acquistare “anche a caro prezzo”, i brevetti stranieri da portare in produzione. “Mentre le menti pensanti, quelle che possono ideare cellule innovative, se ne vanno all’estero”.
Il problema è che per trattenere i ricercatori sul territorio italiano, “bisognerebbe investire molto su questo tipo di lavoro”, mentre è certamente meno rischioso produrre idee altrui. “E’ un problema serio - afferma Ciancarella – perché in Italia riusciamo comunque a sfornare degli ottimi biologi e chimici, che però poi emigrano in paesi dove gli stipendi sono più alti e dove c'è ancora la possibilità di fare ricerca di base”. Un problema che si fa ancora più evidente nel caso degli anticorpi monoclonali, la cui produzione non può essere affidata a una filiera tradizionale. “Lavorare su questi farmaci biologici – conclude il ricercatore - richiede competenze e regole particolarmente stringenti. Ma questo mestiere da noi non si fa più come si dovrebbe”.