L'Umbria è una macchia rossa in mezzo al giallo delle regioni limitrofe. Mentre in gran parte del Paese da una settimana si è ripresa una vita “quasi normale” e si parla addirittura di riaprire cinema, palestre e teatri, nella piccola regione al centro del Paese la situazione non è mai stata così critica. Tutta la provincia di Perugia e diversi comuni di quella di Terni (in tutto 65 sui 92 della regione) sono in zona rossa, quindi, sostanzialmente, in lockdown. Le scuole, di ogni ordine e grado (compresa l'infanzia) sono chiuse. Gli ospedali, a partire da quello del capoluogo Perugia, sono in grandissima sofferenza, con il personale stremato. Il livello di saturazione delle terapie intensive è arrivato fino al 61%, ovvero più del doppio della soglia critica fissata a livello nazionale, mentre la media italiana è al 24%. I ricoverati complessivi per Covid al 12 febbraio erano 523: un numero enorme per una regione che conta gli abitanti di un quartiere di Roma.

L'allarme varianti

Uno degli elementi di maggiore preoccupazione, non solo per l'Umbria, ma per l'intero paese, è la circolazione di due varianti del virus Sars-Cov 2, quella “inglese” e quella “brasiliana” che – spiegano gli esperti - sembrano essere più contagiose. La variante “inglese” è presente in almeno 70 Paesi, tra cui l’Italia e presenta una mutazione genetica che la rende meno facilmente individuabile dai test diagnostici molecolari. È maggiormente trasmissibile, ma non ci sono dati su una sua maggiore pericolosità. Non sembra inoltre alterare l’efficienza dei vaccini attualmente in uso. La variante “brasiliana” invece è stata identificata solo a gennaio 2021 in Giappone, in soggetti provenienti dal Brasile e fino ad ora è stata segnalata in 8 Paesi, tra cui l’Italia. Questa variante non modifica i test diagnostici, ma è maggiormente diffusiva e sembrerebbe attenuare (non cancellare) la risposta ai vaccini. In Umbria la variante brasiliana è stata identificata in due casi, all'interno di un lotto di tamponi inviati a inizio gennaio all’Istituto superiore di Sanità nell’ambito di un programma nazionale di sorveglianza. La risposta però è arrivata solo il 3 febbraio. I due pazienti non avevano un link epidemiologico, cioè non erano collegati tra loro. È evidente, dunque, che non fossero loro i primi due casi e che la variante verosimilmente avesse già circolato nelle settimane precedenti.

Il nodo del tracciamento

Dunque, le varianti erano presenti in Umbria da molte settimane. “Lo si poteva capire dall'andamento puntuale dei contagi dal 21 dicembre – ha osservato sul suo profilo Facebook il dottor Maurizio Del Pinto, cardiologo dell'ospedale perugino – In quella data avevamo ancora un rapporto contagi/tamponi del 4% (oggi è più del doppio), che sarebbe stato ottimo per il tracciamento. E allora sarebbe bastato un buon sistema di tracing e microtracing per vedere dove si stavano accendendo focolai inattesi. Purtroppo – conclude il medico - debbo utilizzare l'imperfetto”. L'osservazione del dottor Del Pinto è centrale, perché quello del tracciamento – o meglio del mancato tracciamento – è uno degli elementi chiave per capire quello che è successo in Umbria e che potrebbe succedere in altre regioni se non si interviene per tempo.

Troppo pochi alla caccia del virus

La funzione strategica del tracciamento è affidata ai dipartimenti di prevenzione, che però nel corso degli anni sono stati fortemente indeboliti. Il professor Fabrizio Stracci, associato di Igiene generale applicata dell'Università degli Studi di Perugia, ricorda come soprattutto la componente igienista sia stata letteralmente svuotata dalle ultime amministrazioni regionali, a partire da quelle di centrosinistra: “Ricordo che qualcuno disse che quello dell'igienista era un lavoro ormai fallito, superato – afferma Stracci – poi però è arrivata la pandemia e i dipartimenti si sono trovati ad affrontarla con organici ridotti all'osso e con grandi differenze territoriali. Da qualche parte, ad esempio, si sono richiamati i pensionati, qui a Perugia no. Noi come Università abbiamo dato un contributo importante, mettendo a disposizione un gruppo di studenti di Medicina, formati ad hoc, che nell'autunno scorso, all'inizio della seconda ondata, hanno contribuito a rimettere in moto un sistema di tracciamento che era completamente saltato”. 

Tracciatori in tirocinio

Tra gli studenti di Medicina che hanno dato questo contributo c'è Andrea Anastasi, che è anche un rappresentante dell'Udu, l'Unione degli Universitari: “Credo che il nostro contributo sia stato e resti decisivo – ci dice – basti pensare che mediamente ogni settimana almeno 10 studenti per 5 ore al giorno si sono dedicati al tracciamento”. Sono 300 ore di lavoro alla settimana, gratis naturalmente. “In pratica – continua Anastasi – siamo a tutti gli effetti forza lavoro, ma 'retribuita' con ore di tirocinio”. Naturalmente, ci tiene a sottolineare il giovane rappresentante Udu, gli studenti di medicina, che il giuramento di Ippocrate lo sentono già proprio, questo lo fanno con entusiasmo. Tuttavia, l'idea, almeno all'inizio, era quella di aiutare a tappare una falla momentanea, determinata dall'impennata dei contagi nella seconda ondata, tra novembre e dicembre. Invece la falla – ovvero la carenza di personale strutturato – non è mai stata tappata. “E deve essere chiaro che se il sistema tutto sommato è ancora in piedi – conclude Anastasi – lo si deve allo sforzo incredibile che sta facendo il personale dei servizi di prevenzione, che lavora sopra le proprie possibilità. Noi l'abbiamo visto con i nostri occhi ed è anche per questo che, nonostante tutto, vogliamo continuare a dare un contributo”.

Il tecnico della prevenzione: fateci lavorare meglio

Studenti, pensionati, protezione civile e persino la Croce Rossa: tutti in soccorso del tracciamento, perché le risorse proprie del servizio sanitario non erano sufficienti. “Noi già prima della pandemia eravamo sotto organico di una quindicina di unità – spiega Roberto Ceppitelli, tecnico della prevenzione della Usl Umbria 1 e delegato Fp Cgil – Così, quando è arrivata la pandemia ci siamo ritrovati a lavorare con le poche forze che avevamo, facendo decine di ore di straordinario, naturalmente senza pensare mai di tirarci indietro, ma a discapito di sicurezza e qualità del lavoro”. Anche perché nel frattempo le attività produttive sono ripartite (anzi, alcune non si sono mai fermate) e quindi il lavoro del dipartimento di prevenzione in materia di infortuni, sicurezza alimentare e sanità pubblica veterinaria non si è mai fermato. “Forse quello che l'amministrazione non riesce a comprendere – continua Ceppitelli – è che noi non vogliamo fare straordinari per avere più soldi, ma vogliamo lavorare meglio. E questa è la battaglia che con i sindacati stiamo portando avanti, chiedendo di assumere personale, possibilmente giovane e con contratti stabili”.

Medici e infermieri in prestito

Nei giorni scorsi la Regione Umbria ha annunciato di aver chiesto, per tramite della protezione civile, 450 operatori sanitari “in prestito” dalle altre regioni per fronteggiare l'emergenza in atto. Una mossa che ha destato un certo scalpore, visto che fino a poco tempo prima l'assessore alla Sanità, Luca Coletto, e la stessa presidente Donatella Tesei, minimizzavano il problema della carenza di personale e delle mancate assunzioni. All'inizio sembrava quasi che i sindacati, che su questo tasto battono invece da prima della pandemia, gridassero al lupo al lupo. Ma se nella prima ondata l'Umbria ha tutto sommato retto bene, grazie agli “eroi” (allora li chiamavamo così) in corsia e a un livello di diffusione del virus molto basso, da ottobre in poi i nodi sono venuti al pettine. Venerdì 12 febbraio è uscito il bando della protezione civile per “professionisti sanitari a supporto delle strutture sanitarie della Regione Umbria”. Si cercano: 121 medici, 287 infermieri e 88 oss. Solo che al bando non possono partecipare i dipendenti pubblici e privati che già operano nel settore sanitario e socio-sanitario. E questo, si legge sul sito della Prociv, “al fine di non pregiudicare i livelli di servizio attuali”. “Chiedere aiuto all'esterno è giusto e lo abbiamo suggerito noi, perché ci è ben chiaro che così non possiamo reggere – afferma Tatiana Cazzaniga, segretaria generale della Fp Cgil dell'Umbria – anzi, abbiamo anche proposto di chiedere il sostegno dei medici cubani, che tanto bene hanno fatto in Lombardia e Piemonte, perché qui la situazione è altrettanto drammatica. E laddove ci fosse bisogno di inviare malati nelle altre regioni – aggiunge la sindacalista – guai a farsi scrupoli, magari per salvare l'apparenza. Qui parliamo di persone che combattono per la vita”.

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Il paradosso: in piena emergenza il personale se ne va in Toscana

C'è un dato che Cazzaniga richiama spesso, un dato tirato fuori a fine 2020 dalla Corte dei Conti, che evidenzia in maniera palese la scelta dell'Umbria di non rafforzare in maniera strutturata e stabile il suo sistema sanitario pubblico. Il dato è il seguente: nel corso 2020 la Toscana ha assunto 1847 infermieri, 50 medici e altre 996 figure professionali a tempo indeterminato, nello stesso periodo l'Umbria ne ha assunte 19. Siamo a un rapporto di 1 a 200.  Ma c'è di più: in quei numeri della Toscana si nascondono molti professionisti formati e impiegati precedentemente in Umbria, ma con contratti precari. Giovani medici e infermieri che se ne sono andati dove gli veniva offerto un rapporto di lavoro più stabile. Un esempio emblematico: il reparto di Malattie Infettive di Perugia, in pratica il fronte della battaglia al Covid-19, ha visto uscire nel mese di gennaio 2021 (cioè quando è scoppiata l'emergenza “varianti”) 5 medici, che hanno vinto un concorso per contratti a tempo indeterminato proprio in Toscana. Qualcosa di simile è successo anche tra gli anestesisti, altra figura chiave nella lotta al virus. E moltissimi sono gli infermieri che hanno seguito  lo stesso tragitto, verso la Toscana, ma anche le Marche, l'Emilia Romagna e il Lazio. L'ultimo caso è quello dell'ospedale di Terni, dove alcuni infermieri hanno lasciato l'azienda ospedaliera per andare a lavorare nella Asl di Rieti. E per tappare le falle si ricorre a personale interinale: medici e infermieri assunti, quando si trovano, attraverso un'agenzia di collocamento, con contratti di pochi mesi. 

L'ospedale “in parcheggio”

La metafora della “guerra” è stata anche troppo abusata in questo periodo, però effettivamente arrivando all'ospedale di Perugia lo scenario può ricordare quello dei teatri di conflitto. Attualmente, infatti, intorno al Santa Maria della Misericordia (che i perugini chiamano ancora con il vecchio nome, Silvestrini) ci sono due ospedali da campo, piazzati nel parcheggio. Il primo è gestito dall'esercito ed è stato inaugurato a novembre in pompa magna dalla presidente della Regione insieme al super-consulente Guido Bertolaso, in una delle tappe del suo “tour” tra le regioni (attualmente è in Lombardia). Il secondo è stato invece collaudato pochi giorni fa: costato 4,5 milioni di euro, di cui 3 messi da Banca d'Italia è una struttura dotata delle migliori tecnologie, con 10 posti di terapia a bassa intensità, 16 di terapia subintensiva e 12 di intensiva. Una manna vista la saturazione dei posti letto in Umbria. Solo che i letti da soli non curano i malati. E infatti l'ospedale è vuoto. Per farlo funzionare servirebbe il personale necessario a mandare avanti un reparto, ma, come si è capito, questo personale non c'è. Per di più – osservano dall'interno del nosocomio – l'ospedale da campo è stato piazzato a 500 metri di distanza da tutto il resto. Quindi i pazienti dovrebbero essere trasportati in ambulanza per qualsiasi cosa, una visita specialistica, un esame diagnostico, eccetera. E allora, è successo che i sanitari dell'ospedale di Perugia hanno cominciato, giustamente, a “smontare” il gioiellino per prendersi qualche macchinario utile a far funzionare le terapie intensive all'interno, visto che tanto, per adesso, sotto la tenda non c'è nessuno.

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E il privato si impenna...

Con i numeri che abbiamo visto il Covid ha naturalmente monopolizzato l'attività di quasi tutti i reparti di medicina, così come degli anestesisti, che sono pure sotto organico. La chirurgia d'urgenza è rimasta, ma gran parte dell'attività di routine, non solo a Perugia, ma in tutti gli ospedali riconvertiti a Covid, si è interrotta. E qui entrano in gioco le cliniche private. Già dopo la prima ondata, ad aprile 2020, la Regione Umbria, come altre regioni italiane, aveva stretto con Aiop e Aris, le associazioni di rappresentanza della sanità privata, un accordo che spostava le attività non covid (chirurgia, internistica e riabilitazione) nelle varie cliniche accreditate. Da quel momento medici e chirurghi del sistema pubblico, liberati da ogni incompatibilità, possono operare all'interno delle cliniche private per portare avanti tutta l'attività che gli ospedali pubblici non fanno più. In questo modo si tenta di non intasare le liste d'attesa e di garantire continuità delle prestazioni, ma il tutto ha naturalmente un costo. Nel testo dell'accordo quadro tra Regione, Aiop e Aris si legge che alle case di cura spetta “una remunerazione corrispondente alla tariffa prevista per i DRG (acronimo di Diagnosis Related Groups, ovvero raggruppamenti omogenei di diagnosi, ndr) dal vigente nomenclatore tariffario, abbattuta della quota percentuale del 20% in ragione del fatto che il personale medico chirurgo verrà messo a disposizione dell'azienda sanitaria e che si recherà ad operare presso la casa di cura dove è stata trasferita la casistica chirurgica”. Laddove invece non sia prevista presenza di personale sanitario pubblico, allora dovrà essere corrisposta la tariffa DRG piena. L'accordo prevedeva inoltre l'erogazione da parte delle due aziende sanitarie umbre per i mesi di aprile, maggio e giugno 2020 di un anticipo pari al 70% del fatturato medio mensile delle cliniche, calcolato sul 2019. A giugno 2020 la Corte dei Conti ha aperto un'indagine sull'accordo umbro con le cliniche private, della quale però non si conoscono ancora gli esiti.

La “concorrenza” sugli anestesisti

In ogni caso lo schema è semplice: il pubblico porta i malati che non riesce a curare (dopo avergli fatto però triage e tampone) e paga il privato per “l'ospitalità”. Ma per poter svolgere la grande mole di attività, in particolare chirurgica, che è stata dirottata sulle cliniche, queste hanno bisogno di anestesisti, merce rara, come si è detto, in questo momento. “Stanno cercando specialisti andati in pensione come me – racconta la dottoressa Rosellina Brasacchio – Io sono stata contatta da diverse cliniche e mi è stato proposto un contratto come libero-professionista e so che ad altri tre colleghi è stata proposta la stessa cosa”. Ma in questo modo, paradossalmente, il privato fa concorrenza al pubblico, visto che, ad esempio, anche l'azienda ospedaliera di Perugia, proprio in questi giorni, sta cercando anestesisti in pensione per attivare il famoso ospedale da campo. “La mia impressione – continua Brasacchio – è così si stia destrutturando il sistema pubblico, portando fuori dei pezzi importanti di attività. E non so se finita la pandemia si tornerà indietro. Mi sembra di intravedere sullo sfondo un modello simile a quello lombardo, in cui gli ospedali si occupano di alta specialità e di emergenza/urgenza, mentre tutto il resto è demandato al privato. Questo mi preoccupa molto – conclude Brasacchio – visto che proprio quel modello si è dimostrato fallimentare”.

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La “variante veneta”

Qualche giorno fa la Cgil di Perugia in un comunicato stampa ha lanciato una provocazione: “Per uscire dalla pandemia – ha scritto  – prima della inglese e della brasiliana sarà necessario sconfiggere la variante veneta”. Il riferimento è alla linea di comando della sanità in Umbria, tutta veneta e, soprattutto, rigorosamente leghista: dall’assessore Luca Coletto, già al fianco di Zaia e poi sottosegretario nel governo Conte I, al direttore generale, Claudio Dario, originario di Conegliano, laureato a Padova, dove ha anche guidato Usl e azienda ospedaliera, come anche a Treviso, sempre sotto le insegne del Carroccio. “Il problema, naturalmente, non è la provenienza di assessori e dirigenti, quanto il modello di sanità che si ha in mente – afferma Vincenzo Sgalla, segretario generale della Cgil dell'Umbria - noi temiamo infatti che l'esternalizzazione delle funzioni sanitarie verso il privato e l'indebolimento della sanità pubblica che sta avvenendo in questa fase di emergenza, a causa di un evidente mancanza di organizzazione e di governance, sia in realtà solo l'inizio di una trasformazione del modello umbro, che, al di là di alcune evidenti criticità, resta un'eccellenza nel panorama del servizio sanitario nazionale. Ecco perché – conclude Sgalla - insieme a Cisl e Uil continuiamo a mantenere alta l'attenzione e la pressione sulla giunta, tanto più adesso che dovrà partire la fondamentale campagna di vaccinazione rivolta alla popolazione anziana. È chiaro che a questo punto altri fallimenti non possiamo proprio permetterceli”.