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Tante, anzi troppe, le aggressioni agli operatori e operatrici sanitari. Diverse sono le cause di un fenomeno che si è acuito nel corso degli ultimi anni, la risposta che il governo sta predisponendo sembra guardare al dito invece che alla luna. Risposta, peraltro, assolutamente coerente con la strategia della destra che siede a Palazzo Chigi di trasformare tutto in un problema di ordine pubblico, a cui dare risposte di tipo securitarie: vengono aggrediti gli autisti degli autobus da passeggeri esasperati dal disservizio? Invece che rendere migliore il servizio si mandano pattuglie di poliziotti alle fermate dei bus o si assumono addetti alla sicurezza privata. Aumentano le aggressioni ai sanitari, si decide per l’arresto in flagranza differita e l’aumento di postazioni di operatori di pubblica sicurezza negli ospedali.
Contrastare le aggressioni
Intendiamoci: le aggressioni e la violenza non sono mai giustificabili e vanno sempre contrastate. Più presidi di polizia sono cosa buona e giusta, ma non sono la soluzione di un problema che occorre cercare di prevenire. Per prevenire occorre comprendere le cause e “sminare” le situazioni che possono diventare critiche, soprattutto è necessario preservare lavoratrici e lavoratori. Per comprendere le cause occorre, prima di tutto, conoscere il fenomeno.
L’Osservatorio
Era l’agosto del 2020. Il Parlamento approvò una legge, la 113/2020, per contrastare gli episodi di violenza nei confronti del personale sanitario e socio sanitario. Dieci articoli densi densi, prevedono – tra l’altro – che le strutture sanitarie predispongano dei piani per la sicurezza con protocolli specifici, coordinati con le forze di polizia, per prevenire episodi di aggressioni. Probabilmente l’articolo più importante è quello che istituisce l’Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti, delle professioni sanitarie e sociosanitarie (Onseps). L’obiettivo è quello di monitorare gli episodi di violenza e gli eventi sentinella, promuovere studi e analisi per elaborare proposte che riducano i fattori di rischio, monitorare l’attuazione delle misure di prevenzione e protezione.
Numeri e fatti
Racconta Barbara Francavilla, segretaria nazionale della Fp Cgil, una dei componenti dell’Osservatorio: “Quando l’Osservatorio è stato istituito gli unici dati che noi avevamo erano quelli dell'Inail, cioè le aggressioni che erano state denunciate come infortunio. Basti pensare che nel triennio precedente all’istituzione dell'Osservatorio le aggressioni denunciate all’Inail erano state solo 6.000”.
Metodo e strumenti
Le 62 persone che compongono l’Osservatorio in rappresentanza – tra gli altri – dei sindacati, degli ordini professionali, del ministero della Salute, delle regioni, hanno innanzitutto predisposto un modulo di raccolta per ottenere i dati a livello provinciale nelle singole strutture sanitarie. La relazione dell’Osservatorio 2023 non è completa, fotografa il fenomeno solo nelle strutture pubbliche e non in quelle del privato accreditato, inoltre mancano i dati della Sicilia.
Gli ultimi dati
“I dati raccolti dall’Osservatorio attraverso i singoli centri regionali e gli ordini professionali – aggiunge la dirigente sindacale – hanno evidenziato, per il solo 2023, 16.000 aggressioni fisiche e verbali che hanno coinvolto 18.000 operatori. Si tratta di un dato sottostimato in quanto molte regioni non hanno fornito dati per la parte del sistema privato che comunque fa parte del servizio sanitario”. Sempre i dati raccontano che le “vittime” sono in predominanza donne; certo gli operatori sanitari e socio sanitari sono per la maggior parte operatrici, ma forse non è solo questa la ragione che spiega perché tante aggressioni riguardano il personale femminile.
Perché le aggressioni?
Barbara Francavilla è arrivata alla segreteria nazionale della Fp partendo dal suo luogo di lavoro: è un’infermiera della sanità privata, ha lavorato a lungo in reparti ospedalieri ad alta intensità di cura. Il “lavoro” lo conosce bene, così come bene conosce l’organizzazione del lavoro e riflette: “Se l’organizzazione della struttura dove opero stabilisce che gli appuntamenti per i prelievi del sangue sono ogni 10 minuti, ma io sono da sola e devo chiamare il paziente, stampare le etichette e predisporre le provette, trovare la vena ed effettuare il prelievo, riempire le provette e sistemarle per l’invio in laboratorio, occuparmi del paziente che potrebbe non sentirsi bene, quei 10 minuti non sono sufficienti e quelli che aspettano il proprio turno si innervosiscono o magari si sentono male a loro volta. E non c’è nessuno che si occupi di loro”. Questo come ovvio è solo uno dei moltissimi esempi che si potrebbero fare. “Allora – aggiunge – è evidente che esiste un problema di organizzazione del lavoro, che crea disservizio e di conseguenza insoddisfazione”.
Giustificazione o spiegazione?
È da sottolineare che non c’è nulla, nemmeno l’organizzazione del lavoro inadeguata, che giustifica le aggressioni e la violenza, ma per prevenire questi fenomeni occorre comprenderne l’origine. Se chi accede al pronto soccorso aspetta ore senza essere visitato e senza che nessuno gli dica quanti sono i pazienti più gravi che sono visitati, se non vi è una accurata informazione nei confronti dei familiari in attesa, si creano ansia e preoccupazione che a volte è all’origine di fenomeni di violenza. Non è un caso che tra le raccomandazioni dell’Osservatorio ci sia la predisposizione di una formazione adeguata del personale, per l’informazione a pazienti e familiare, o la predisposizione di strumenti atti alla formazione, come ad esempio tabelloni nella sala di attesa dei pronto soccorso che comunichino quante le persone in visita, quante quelle in attesa per i singoli codici di gravità.
Cause e possibili soluzioni
La difficoltà maggiore, a sentire Francavilla, è convincere le diverse strutture a mettere in discussione se stesse e a far modificare organizzazioni e procedure: “L’organizzazione di una qualsiasi struttura sanitaria si basa sulla prestazione, ma il paziente non è la prestazione, il paziente è una persona di cui mi devo prendere cura. La questione centrale è questa: si organizza il lavoro sulla prestazione, non sul prendersi cura delle persone”.
Lavoratori e lavoratrici al centro
Prendersi cura, afferma la dirigente sindacale, per farlo occorre che il personale sia numericamente adeguato alle necessità dei servizi, invece – è sempre lei a sottolinearlo – “ormai siamo talmente pochi che in alcune strutture il numero degli operatori in servizio è vicino a quello previsto quando si sciopera”. Insomma, il problema delle aggressioni non si risolve non solo aumentando il numero dei poliziotti, ma quello di infermieri, medici, operatori socio-sanitari, fisioterapisti eccetera. Il servizio sanitario nazionale ha innanzitutto bisogno di risorse.
Prendersi cura di chi cura
Operare in un reparto di rianimazione o di oncologia, ad esempio, sottopone operatori e operatrici a stress enormi. I familiari di chi è ricoverato e magari non ce la fa, sono a loro volta sottoposti a stress e a dolori grandi: “Il supporto psicologico agli operatori e ai familiari dei pazienti non esiste. Questo è un tema sottovalutato ma assolutamente essenziale. Serve qualcuno che aiuti ad affrontare il dolore e la rabbia per la perdita di una persona cara. Serve qualcuno che aiuti ad affrontare il dolore e la rabbia per non essere riusciti ad evitare quella perdita”.
Una possibile conclusione
Al centro del servizio sanitario nazionale, diversamente da ciò che è, deve essere la persona e i suoi bisogni di cura, non la prestazione da erogare. Le strutture, dall’ambulatorio territoriale al grande ospedale, dovrebbero avere la capacità di mettere sotto osservazione l’organizzazione del lavoro e modificarla: “Il problema non è solo il numero dei poliziotti, ma cambiare l'organizzazione del lavoro e l'organizzazione del servizio”. Poi serve formazione del personale e informazione degli utenti. E sopra ogni altra cosa servono organici adeguati.
Il tema è ricorrente: la riduzione del perimetro dei servizi pubblici, e il pugno di ferro per gestire il malcontento. Nella prossima legge di bilancio ci saranno le risorse adeguate a garantire la sicurezza degli operatori sanitari,al di la della logica securitaria?