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Il 9 novembre del 1943, in occasione dell’apertura dell’Anno accademico dell’Ateneo di Padova, un gruppo armato di studenti in camicia nera prende possesso del palco, minacciando l’arresto per gli "imboscati" della platea che non avevano risposto alla chiamata alle armi coatta lanciata dalla Repubblica Sociale.
Bruno Trentin, giovanissimo testimone dell’accaduto, racconterà:
Poco prima che iniziasse la cerimonia questo drappello di fascisti, oramai della Repubblica di Salò, giovani universitari che avevano ricostituito un gruppo di avanguardisti, hanno occupato il palco e hanno cercato di arringare la folla degli studenti, praticamente con un appello ad arruolarsi nelle truppe della Repubblica sociale italiana; ci fu una reazione nella folla degli studenti che fischiarono questa intrusione dei fascisti in una cerimonia così austera e impegnativa. Cominciarono però le minacce da parte di questo gruppo di fascisti che si era messo davanti al palco con atteggiamenti molto aggressivi, gli stessi poliziotti in borghese che giravano fra gli studenti cominciarono ad intervenire per sedare un po’ questo tumulto, ed è in quel momento che, in modo molto teatrale, con un usciere con l’alabarda che si è presentato sul palco battendo tre colpi, è entrato il senato accademico dell’Università di Padova; e in mezzo ai docenti, ai presidi, si è avanzato un piccolo uomo col mantello di ermellino: era Concetto Marchesi, che si diresse direttamente verso il palco dove parlava il capo di questo manipolo di fascisti, lo prese per la collottola e lo buttò giù dal palco letteralmente di fronte allo stupore attonito degli altri fascisti e di fronte all’ammirazione e all’entusiasmo di questa folla di studenti che aspettavano un segno. Dopo pochi minuti Marchesi cominciò il suo discorso di inaugurazione dell’anno accademico e lo cominciò in nome del popolo lavoratore.
Concetto Marchesi dirà:
L’Università è sicuramente la più alta palestra intellettuale della gioventù: dove sorgono lenti o impetuosi i problemi dello spirito, dove gli animi sono più intenti a conoscere o a riconoscere quelle che resteranno forse le verità fondamentali dell’esistenza individuale. E noi maestri abbiamo il dovere di rivelarci interi, senza clausure né reticenze, a questi giovani che a noi chiedono non solo quali siano i fini e i procedimenti delle particolari scienze, ma che cosa si agita in questo pure ampio e infinito e misterioso cammino della storia umana. E questo compito non è proprio soltanto delle scienze morali e storiche e letterarie ma si estende a tutti i rami dell’insegnamento superiore: e noi sappiamo quanto lume di dottrina, quali esempi di dignità, che nobile e vigoroso richiamo alla libertà dell’intelletto siano venuti in ogni tempo dagli istituti scientifici, donde la ricerca muove verso tutti gli spazi; dalle scuole di ingegneria, dove l’arte e la tecnica attendono insieme alla bellezza e alla utilità sociale; dalle aule e dai laboratori di medicina, dove l’uomo è continuamente conteso al segreto che lo circonda e lo insidia e al male che da ogni parte lo colpisce nella perpetuità delle generazioni. Non sarà frase ambiziosa dire che l’Università è l’alta inespugnabile rocca dove ogni nazione e ogni gente raduna le sue più splendide e feconde energie perché l’umanità abbia nel suo cammino un sostegno e una luce; essa è la rocca che domina o alimenta il mondo tutto del lavoro. Di là da quel mondo la voce della scienza si fa muta o si converte in maleficio. Oltre i confini in cui il popolo lavoratore compie il destino della sua giornaliera fatica, manca il nutrimento allo spirito dell’uomo, che è nullo se non si riduce in benefica offerta e in salutare ristoro all’indigenza e al patimento della vita. La via che va dalla scuola alla officina, dai laboratori scientifici alla zolla arata e seminata, è oggi certamente assai più larga e diritta che prima non fosse; per quella via giungono di continuo i sussidi della scienza indagatrice e creatrice alle mani dell’operaio e del contadino; ma quelle mani non si tendono ancora abbastanza né si stringono in quel vincolo solidale che nasce dal senso fraterno di una comune necessità. C’è ancora da costituire nel mondo la vera e grande e umana parentela che renderà più sicura quell’altra che si estende pei rami delle discendenze e delle affinità. La società moderna che apparisce così enormemente complicata rispetto all’antica è invece - non vi sembri eresia - è invece enormemente semplificata nella sua attività spirituale. Questo miracolo di chiarificazione e semplificazione ha operato un fattore di prodigioso potere: il lavoro. Il lavoro c’è sempre stato nel mondo, anzi la fatica imposta come una fatale dannazione. Ma oggi il lavoro ha sollevato la schiena, ha liberato i suoi polsi, ha potuto alzare la testa e guardare attorno e guardare in su: e lo schiavo di una volta ha potuto anche gettare via le catene che avvincevano per secoli l’anima e l’intelligenza sua. Non solo una moltitudine di uomini, ma una moltitudine di coscienze è entrata nella storia a chiedere luce e vita e a dare luce e vita. Oggi da ogni parte si guarda al mondo del lavoro come al regno atteso della giustizia. Tutti si protendono verso questo lavoro per uscirne purificati. E a tutti verrà bene, allo Stato e all’individuo; allo Stato che potrà veramente costituire e rappresentare la unità politica e sociale dei suoi liberi cittadini; all’individuo che potrà finalmente ritrovare in sé stesso l’unica fonte del proprio indistruttibile valore. Sotto il martellare di questo immane conflitto cadono per sempre privilegi secolari e insaziabili fortune; cadono signorie, reami, assemblee che assumevano il titolo della perennità: ma perenne e irrevocabile è solo la forza e la potestà del popolo che lavora e della comunità che costituisce la gente invece della casta. Signori, in queste ore di angoscia, tra le rovine di una guerra implacata, si riapre l’anno accademico della nostra Università. In nessuno di noi manchi, o giovani, lo spirito della salvazione, quando questo ci sia, tutto risorgerà quello che fu malamente distrutto, tutto si compirà, quello che fu giustamente sperato. Giovani, confidate nell’Italia. Confidate nella sua fortuna se sarà sorretta dalla vostra disciplina e dal vostro coraggio: confidate nell’Italia che deve vivere per la gioia e il decoro del mondo, nell’Italia che non può cadere in servitù senza che si oscuri la civiltà delle genti. In questo giorno 9 novembre dell’anno 1943 in nome di questa Italia dei lavoratori, degli artisti, degli scienziati, io dichiaro aperto l’anno 722° dell’Università padovana.
Dopo l’apertura dell’anno accademico, prima di entrare in clandestinità, Marchesi lancerà ai suoi studenti quest’appello:
Studenti dell’Università di Padova! Sono rimasto a capo della vostra Università finché speravo di mantenerla immune dall’offesa fascista e dalla minaccia germanica; fino a che speravo di difendervi da servitù politiche e militari e di proteggere con la mia fede pubblicamente professata la vostra fede costretta al silenzio e al segreto. Tale proposito mi ha fatto resistere, contro il malessere che sempre più mi invadeva nel restare a un posto che ai lontani e agli estranei poteva apparire di pacifica convivenza mentre era un posto di ininterrotto combattimento. Oggi il dovere mi chiama altrove. Oggi non è più possibile sperare che l’Università resti asilo indisturbato di libere coscienze operose, mentre lo straniero preme alle porte dei nostri istituti e l’ordine di un governo che - per la defezione di un vecchio complice - ardisce chiamarsi repubblicano vorrebbe convertire la gioventù universitaria in una milizia di mercenari e di sgherri massacratori (…) non posso lasciare l’ufficio del Rettore dell’Università di Padova senza rivolgervi un ultimo appello. Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra patria. Traditi dalla frode, dalla violenza, dall’ignavia, dalla servilità criminosa, voi insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell’Italia e costituire il popolo italiano. Non frugate nelle memorie o nei nascondigli del passato i soli responsabili di episodi delittuosi; dietro ai sicari c’è tutta una moltitudine che quei delitti ha voluto e ha coperto con il silenzio e la codarda rassegnazione; c’è tutta la classe dirigente italiana sospinta dalla inettitudine e dalla colpa verso la sua totale rovina. Studenti: mi allontano da voi con la speranza di ritornare a voi maestro e compagno, dopo la fraternità di una lotta assieme combattuta. Per la fede che vi illumina, per lo sdegno che vi accende, non lasciate che l’oppressore disponga della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l’Italia dalla schiavitù e dall’ignominia, aggiungete al labaro della vostra Università la gloria di una nuova più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace nel mondo.