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Dalle cronache dei media sta scomparendo la ragnatela di pregiudizi, stereotipi, cliché che da anni accompagnano i resoconti dei femminicidi in Italia. Piano piano, pezzo dopo pezzo, un fenomeno che avviene spessissimo in famiglia viene tirato fuori dalla dimensione privata e dimostra le sue caratteristiche reali, di evento sociale e pubblico. A registrare queste evoluzioni è l’Osservatorio di ricerca sul femminicidio, nato nel 2015 per analizzare come si tratta questo tema sui media, nei commenti dei cittadini, nelle aule dei tribunali e nelle sentenze, nei discorsi dei politici e delle istituzioni.
Si tratta di un progetto che ha come capofila il dipartimento di scienze politiche e sociali dell'università di Bologna, e coinvolge gli atenei di Torino, del Salento, di Palermo e di Padova. Anni di analisi e studio hanno evidenziato come sia positivamente aumentata la visibilità dei femminicidi nella cronaca giornalistica, soprattutto nella versione on line delle testate, ma non sempre allo stesso modo.
La notiziabilità
“Abbiamo riscontrato che ci sono tre tipi di ‘notiziabilità’– spiega Pina Lalli, docente di sociologia della comunicazione a Bologna e coordinatrice del progetto -. Gli episodi con forte notiziabilità sono i femminicidi che abbiamo chiamato di alto profilo, che coinvolgono vittime e assassini molto giovani, o che si prestano alla ricostruzione di un giallo, o ancora se si verifica una strage, o c’è qualche elemento scabroso. Sono fatti di cronaca eclatanti che permettono di settimanalizzare la notizia. La tragica uccisione di Giulia Cecchettin ha attirato tantissimo l’attenzione dei media, ha avuto un effetto dirompente in gran parte della società, con elementi di novità. È successo anche grazie alla sorella, una giovane che ha dato voce alla vittima, purtroppo costretta al silenzio: ha preso la parola in nome della ragazza uccisa, e ha chiamato tutti a mobilitarsi, uomini e donne, con un appello alla prevenzione”.
Uccisioni “altruistiche”
Sul polo opposto ci sono i femminicidi meno notiziati, che semmai finiscono tra le brevi di cronaca, neppure trattati come femminicidi ma come drammi famigliari, tragedie della solitudine.
“Invece sono femminicidi – spiega -: omicidi di donne anziane, magari invalide, da parte di un parente, spesso il marito. In questo caso viene enfatizzato il fatto che l’uccisione della donna è avvenuta per mano di un uomo, il quale ‘poverino’ non ce la faceva più. In alcune sentenze li abbiamo sentiti chiamare omicidi ‘altruistici’, quasi che i mariti uccidessero la moglie malata di Alzheimer come forma di eutanasia. Vi è un tasso molto elevato di omicidi anche tra donne oltre i 65 e anche i 75 anni, superiore quindi alla mezza età”.
Nel mezzo, il terzo tipo: “È quello maggioritario, che abbiamo chiamato ‘la cronaca tipica del femminicidio tipico’ – prosegue la docente -. In pratica si parla dell’uccisione delle donne in modo sempre più routinizzato, ma allo stesso tempo si rendono pubblici gli omicidi che avvengono in ambito familiare con una visibilità che prima era minore”.
Amore & raptus
Se si analizza poi il modo in cui i femminicidi vengono raccontati, i giornalisti utilizzano cornici e li collocano all’interno di una dimensione privata. “Spesso parlano di amore malato, romantico, eccessivo, parlano di gelosia, come se queste dimensioni ci aiutassero a capire, giustificassero o spiegassero il femminicidio – afferma Lalli -. Oppure la tragedia viene motivata con lo scatto di ira, dicendo che l’omicida non voleva ma ha perso il controllo. Per fortuna si usa sempre meno la parola raptus, grazie alla mobilitazione il cui risultato è stato siglato nella carta di Venezia, quello che vieta di usare termini che non hanno base scientifica”.
Nelle cronache, poi, ci si interroga sempre sull’esistenza di eventuali precedenti di violenza subita dalla donna uccisa. “Questo – prosegue la docente - è un elemento nuovo che può essere contraddittorio e finire con la vittimizzazione secondaria. Vale a dire: la donna non ha denunciato o le istituzioni non hanno fatto abbastanza”.
Nessuna giustificazione
Di emozioni poi si parla solamente se le uccisioni avvengono in ambito domestico. “Giustificarle come aberrazioni di patologie individuali è molto riduttivo, perché attribuiamo all’uomo il fatto di poter essere colto da impeto, o ammettiamo che sia normale che un uomo abbia un desiderio di possesso quasi intrinseco nei confronti della propria compagna, una passione che può spingere all’omicidio. È invece un crimine in quanto tale, esattamente come qualsiasi altro omicidio. C’entrano il potere, la differenza e la disuguaglianza di genere e quanto gli uomini, di fronte a un ‘no’, si sentano autorizzati a qualsiasi cosa”.
Ma quale gigante buono?
I casi di cronaca la dicono lunga su come ancora oggi vengano visti, vissuti e raccontati i femminicidi. Prendete il caso dell’omicidio di Elisa Pomarelli, la ragazza di 28 anni uccisa da un quarantenne, che si creò degli alibi.
“Quando si scoprì chi era l’assassino – spiega Lalli - i giornali titolarono: ‘Confessa e piange, il gigante buono’. Ma quale gigante buono? Questa è volontà di controllo e di possesso a ogni costo, è frutto di una predisposizione culturale che vorrebbe il corpo femminile come oggetto del desiderio maschile, come se le donne debbano regolare il desiderio maschile, non fargli prendere raptus”. Non è un caso che il libro frutto della ricerca dell’Osservatorio è stato provocatoriamente titolato “L’amore non uccide, non c’entra niente”.
Abbattere le disuguaglianze
La studiosa si dice però convinta che lentamente le cose stiano cambiando, anche grazie a una maggiore presenza delle donne nello spazio pubblico. E che c’è bisogno di pratiche effettive: “Sono ancora fortissime le disuguaglianze di genere nei luoghi di lavoro, a scuola le donne sono più brave e si laureano di più e poi sono invece meno numerose nei ruoli apicali e guadagnano meno. Ora la consapevolezza sta crescendo, i modelli familiari cambiano, ma tutto questo non accade senza conflitti e senza controversie”.
Battaglia comune
Gli ultimi dati Istat dicono che il 20 per cento della popolazione ritiene che una donna può istigare alla violenza sessuale vestendosi in modo provocante, ma “alcune prese di posizione stanno diminuendo. Non basta cambiare le norme per avere effetti immediati sulla vita delle persone”.
Infine Lalli tiene a precisare che la battaglia su questi temi non deve essere solamente femminile, “ma deve vedere alleati uomini, donne e ragazzi – conclude - ed è questa la novità che si intravede nel dibattito che c’è stato sull’uccisione di Giulia Cecchettin, mentre altri aspetti ripetono cronache già viste. Le responsabilità sono anche collettive: le disposizioni di ruolo sono legate alle esperienze che facciamo insieme all’altro e i giudizi reciproci che ci diamo gli uni verso gli altri sono fondamentali”.