“Tanto non soffre, tanto non capisce”. Nei mesi estivi costellati di dubbi amletici sulla riapertura delle scuole, così come nelle ultime settimane di countdown e in questi primi giorni della lenta ripresa, quasi nessuno ha parlato di bambini. I piccoli da zero a sei anni (e i loro genitori) sono spariti dal dibattito pubblico e da quello politico. Come se per loro non fosse altrettanto problematico, forse perché non obbligatorio, il ritorno a scuola. Esseri umani completi a loro modo (e non fasi di uno stadio evolutivo darwiniano) non sanno ancora esprimersi in maniera verbalmente complessa, ma sono dei piccoli universi. Su ognuno di loro, la pandemia ha avuto (e avrà) conseguenze in parte indecifrabili, che si comprenderanno solo col tempo. Piccole grandi regressioni, che li hanno riportati nel lettone, con il pannolino, il dito in bocca, o insofferenti al passeggino. In alcuni casi diffidenti, schivi, disabituati alla socialità.
Nessuno ha stabilito per loro regole univoche sul ritorno all’asilo o alla scuola materna. Solo qualche linea guida di base e un patto di corresponsabilità da far firmare ai genitori: al primo raffreddore, tutti a casa. Ma i bambini in età prescolare il raffreddore ce l’hanno tre settimane su quattro. Prima del Covid 19, quando il bambino stava male la maestra chiamava e il genitore si precipitava a scuola. Assenza da lavoro giustificabile con malattia del figlio, nel migliore dei casi. Ferie o permessi in situazioni minimamente tutelate. Niente, nel caso di contratti atipici e precari. Ma cosa succederà quest’anno, quale sarà la prassi da seguire? Se il bambino ha il raffreddore, per quanto dovrà stare a casa? E i genitori dovranno mettersi in isolamento per precauzione? Sono domande che in tantissimi si fanno, tra coloro che hanno deciso di mandare i figli all’asilo o alla materna. Molti altri, invece, hanno paura, preferiscono aspettare ancora qualche mese, magari fino a Natale, vedere come va la curva dei contagi.
E poi ci sono quelli che la paura l’hanno dovuta superare per forza: chi è stato preso al pubblico non può permettersi di perdere il posto, chi cerca un privato rischia di non trovarne più neanche lì. I genitori dei bambini più piccoli vivono queste settimane costretti a scegliere il male minore: da un lato, la salute dei figli; dall’altro, il lavoro. Molti sono già tornati a svolgere le proprie mansioni in sede, anche perché lo smart working è garantito solo ad alcuni. Chi ha un figlio minore di 14 anni, infatti, perde il diritto a lavorare da casa se ha fatto anche un solo giorno di cassa integrazione o di fis. Così come aveva già perso, per la stessa ragione, la possibilità di richiedere il congedo parentale straordinario, il bonus nonni e quello per i centri estivi.
Ciò nonostante, la vera grande preoccupazione di questi genitori, quella che toglie il sonno la notte, è la questione della socialità. Per i bambini che andavano già al nido o alla materna, ma anche per quelli che in quarantena hanno cominciato a camminare o a parlare, scuola significa imparare a stare nel mondo, diventare autonomi. Viene da chiedersi che rapporti sociali costruiranno questi bambini che hanno visto solo esseri umani mascherati, dal naso in giù. Le maestre diranno loro che non si devono dare la manina, né abbracciare o baciare? E come faranno per consolare chi piange, o far addormentare chi ha bisogno delle coccole? La prassi è quella dei gruppi bolla: ognuno potrà stare solo con i compagni del suo gruppo. Giochi, peluche, oggetti personali saranno di uso esclusivo all’interno della bolla, previa sanificazione quotidiana. Vietato giocare tutti insieme: il giardino e gli spazi interni saranno divisi da muri, recinti, steccati. Le attività comuni saranno ridotte al minimo. I giochi non si potranno scambiare. Vietato fare tutto quello che di solito fanno i bambini.
Ogni genitore sarà, in cuor suo, diviso tra la paura che l’educatrice si tolga la mascherina e il desiderio che lo faccia, di tanto in tanto, per sorridere a suo figlio. Per le mamme e i papà di bambini piccoli, la fase tre è quella del dubbio perenne di sbagliare: da un lato, l’imperativo sanitario di non toccare niente e nessuno, per tutelare la sua salute fisica; dall’altro, il bisogno di lasciargli dare la mano a un coetaneo incontrato per strada, per salvaguardare quella mentale. I bambini hanno bisogno di toccare cose e persone. E’ questo il loro modo di esperire il mondo. Ma nessuno, a parte i loro genitori, sembra preoccuparsene.