Ogni giorno in Italia tre persone escono la mattina di casa per andare a lavorare e non tornano. Tre famiglie si ritrovano a dover identificare un corpo, fare spazio in un armadio, spiegare a un figlio che il papà o la mamma non ci sono più. Con macabra puntualità, la Repubblica del cordoglio ipocrita mette in scena il suo teatrino: dichiarazioni accorate, minuti di silenzio, qualche fiore, una promessa vaga. Poi avanti, come se nulla fosse.

Ma il lavoro che uccide non è una fatalità. È una scelta. Politica, economica, morale. È la logica feroce del profitto che riduce l’essere umano a una variabile sacrificabile. È l’ossessione del “costi quel che costi” che porta aziende a risparmiare su tutto, tranne che sui dividendi. È l’assuefazione istituzionale alla morte bianca, che in realtà è rossa di sangue operaio e nera di responsabilità non assunte.

Oggi è la Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro, ma dovrebbe essere la giornata mondiale della vergogna. Perché non siamo di fronte a un fenomeno imprevedibile, ma a una strage quotidiana perfettamente evitabile. I dispositivi di protezione ci sono. I controlli dovrebbero esserci. Le sanzioni anche. Ma troppo spesso la sicurezza sul lavoro resta un orpello, un fastidio burocratico, un costo da aggirare. Così si costruiscono le impalcature dell’ingiustizia.

Ci raccontano che la sicurezza è una questione di cultura. Vero. Ma la cultura si fa con le leggi, i controlli, le ispezioni. Non con i post e le commemorazioni. Serve un esercito di ispettori, non un corteo di passerelle. Serve una magistratura che colpisca duro e non una giustizia che archivia in fretta. Chi lavora ha diritto di tornare a casa. Vivo.

Eppure, mentre l’innovazione galoppa, la sicurezza resta ferma al palo. Parliamo di intelligenza artificiale, di sensori, di algoritmi predittivi capaci di rilevare in tempo reale situazioni di pericolo, di piattaforme digitali che monitorano turni, carichi di lavoro, conformità alle norme. Strumenti che potrebbero salvare vite, e che invece restano marginali, sperimentali, relegati a qualche progetto pilota nei pochi contesti virtuosi. Perché se l’IA serve ad aumentare la produttività, si investe. Se serve a prevenire gli infortuni, si tergiversa.

E allora sì, oggi parliamo di rivoluzione digitale. Ma deve essere una rivoluzione vera, non solo tecnologica. Una rivoluzione dei diritti, della dignità, della prevenzione. L’intelligenza artificiale deve diventare alleata di chi lavora, non l’ennesimo strumento per spremere di più chi è già sfruttato. La digitalizzazione deve servire a ridurre i rischi, non a moltiplicare i ritmi. Le piattaforme devono monitorare la sicurezza, non solo le performance.

Per questo, nella Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro, non basta ricordare. Bisogna pretendere. Pretendere che ogni innovazione sia anche un’innovazione di tutela. Pretendere che la tecnologia sia vincolata al rispetto della vita, non solo al profitto. Pretendere che ogni luogo di lavoro sia davvero un luogo sicuro, non una trappola quotidiana. È il minimo. È il necessario. È il solo modo per dare senso alle parole che oggi, ancora una volta, rischiano di volare via come coriandoli nel vento dell’indifferenza.