...Artefice e deus ex machina ne fu invece uno sconosciuto signore dalla faccia paciosa di borghese meridionale, dai sobri baffetti, dall’aria molto understatement. Si chiamava Alberto Beneduce, era stato allievo e intimo del leader liberale e antifascista Francesco Saverio Nitti (all’epoca esule a Parigi) e aveva fama di grande esperto di finanza (fondatore dei primi enti pubblici del dopoguerra concepiti come intermediatori finanziari). Fu lui, Beneduce, e non Mussolini come ha dimostrato anni fa documenti alla mano lo storico Lucio Villari, il vero inventore dello Stato imprenditore.

Fu quello un grande salvataggio pubblico delle banche private gravate di debiti e partecipazioni industriali, in parte simile (ma solo in parte) ad altre analoghe operazioni già effettuate prima e dopo la guerra mondiale. In parte, però, perché vi fu quella volta una novità rivoluzionaria: lo Stato entrò nelle imprese e nelle banche salvate, ci mise soldi e garanzie ma pretese di acquisirne direttamente il controllo e di cambiarne radicalmente il management. Nacque così l’Iri (1933) cui fece seguito la proliferazione degli enti pubblici di gestione: lo Stato, organizzato in forme privatistiche (allora si diceva “industriali”) divenne il padrone dell’economia.

Sulla svolta degli anni Trenta l’Italia, e non solo quella fascista, ci ha campato a lungo. L’Iri è continuata a esistere anche nel secondo dopoguerra, vincendo le resistenze dei liberisti all’Einaudi, ed anzi è diventata un ganglio vitale del sistema democristiano di sottogoverno negli anni Cinquanta e Sessanta. Guidata ancora da una dirigenza eccellente, formatasi ai tempi di Beneduce (Menichella, Saraceno, Giordani), ha vissuto una stagione virtuosa negli anni della ricostruzione e poi in quelli del miracolo economico. Ha costruito (con le sue tante partecipate) autostrade, ferrovie, edifici pubblici, navi, aerei, automobili, persino panettoni; ha gestito grandi reti di comunicazione, televisione pubblica, produzioni cinematografiche, teatri ed intraprese culturali. Ha contribuito potentemente all’industrializzazione del Mezzogiorno.

Ma lo Stato imprenditore ha cessato la sua parabola ascendente negli anni Settanta. Poi è entrato in una logorante fase recessiva. I grandi enti che ne costituivano le articolazioni (l’Iri in testa) sono stati invasi e occupati dalla politica di partito, lottizzati, subordinati al Manuale Cencelli della spartizione dei posti. La spesa improduttiva è cresciuta a dismisura. Le burocrazie pure. Le competenze tecniche sono state messe all’angolo a vantaggio della fedeltà ai politici. E’ stata la stagione logorante dei boiardi di Stato, delle arroganti élites messe in sella ai partiti (soprattutto di governo) e esentate da qualunque vincolo di risultato: la stagione disastrosa della Razza Padrona.

Col collasso della cosiddetta prima Repubblica, negli anni Novanta, è venuto giù anche lo Stato imprenditore. Governi coraggiosi (il Ciampi del 1993-94, poi specialmente il primo governo Prodi del 1996-98) hanno de-statalizzato interi comparti di industria pubblica. I privati sono stati incoraggiati a occupare gli spazi lasciati liberi dalla ritirata dello Stato. Le banche “irizzate” sono state restituite al mercato. L’Iri stesso, e con lui altri enti pubblici, sono stati sciolti o privatizzati.

Ci si domanda adesso: è stato bene o male liberalizzare? E’ stato certamente bene, perché in una moderna economia di mercato allo Stato non tocca intervenire come produttore ma fissare le regole e farle rispettare. L’economia del Paese ne ha tratto indubbio giovamento, l’industria privata nuovo impulso a rinunciare alla stampella dello Stato e a correre il rischio della concorrenza anche in campo internazionale.

Ora però accade qualcosa di imprevisto che sembra imporre una clamorosa inversione di rotta. I segnali di crisi spingono di nuovo i governi europei a intervenire in economia, e inopinatamente torna di moda lo Stato imprenditore (anzi, lo Stato “salvatore”, come lo chiama in un bel saggio recente il giurista Giulio Napolitano). Tremonti, un tempo talebano iperliberista, si proclama adesso nazionalista economico e lancia strali sul “mercatismo” della sinistra fonte – a suo dire – di tutte le sventure. Berlusconi in persona dichiara solennemente di voler tornare indietro allo Stato padrone. Gli industriali, sempre liberisti quando si tratta degli altri ma protezionisti per sé, fanno la ola come allo stadio.

Contrordine compagni, si diceva nelle icastiche vignette anticomuniste di Guareschi. Solo che qui il dietrofront lo stanno facendo lorsignori.

Che dire di questa vistosa inversione di marcia? Verrebbe da riprendere la battuta manzoniana: adelante, Pedro, ma con juicio. Facciamo, sì, quanto è doveroso per i salvataggi, ma senza regalare adesso premi spropositati ai privati (che non se li meritano, a cominciare dai banchieri), e soprattutto senza stravolgere l’assetto dell’economia di concorrenza ripiombando in anacronistici nazionalismi economici. Lo Stato salvatore può costituire la ricetta temporanea per l’emergenza, non la via breve per imboccare altri cinquant’anni di statalismo mascherato.

La destra corporativa, ex fascista e protezionista se ne faccia una ragione: non è più il tempo dell’Iri anche perché non si vedono in giro imprenditori della tempra del vecchio Beneduce. Che se vivesse e vedesse cosa si fa e si dice in suo nome, lui che amava tanto starsene in silenzio, avrebbe – credo – un moto di fastidio.

* Deputato del Partito Democratico. Professore ordinario di storia delle istituzioni politiche e di storia dell’amministrazione pubblica all’Università di Roma La Sapienza

Articolo tratto da guidomelis.wordpress.com