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La Conca d’Oro. A scriverlo oggi sembra uno scherzo di pessimo gusto. Eppure, all’inizio di questa storia, la storia di Pio La Torre, quando si parla della Conca d’Oru si fa riferimento alla pianura che dai monti di Palermo scende fino al Tirreno. Una pianura ricca di arance, mandarini, limoni,mpompelmi. Una pianura coltivata di tutti i colori dell’oro.
È stata così fino a quando la città non ha deciso di mangiarsi rami, tronchi, radici, terra, crescendo a dismisura e sostituendo i frutteti con una selva ben ordinata di tondini di ferro, calcestruzzo e asfalto. Come puoi chiamarla ancora in quel modo? Con il sacrificio della Conca si sono fatti l’oro, altro che agrumi!, l’oro vero, quello della speculazione edilizia. Se lo sono messi in tasca, lo hanno spedito in Svizzera o chissà dove. E oggi, quando dici Conca d’Oro, ai limoni non pensa più nessuno. Era rimasto solo il nome, ma poi si sono presi anche quello e ci hanno battezzato un centro commerciale. La Conca d’Oro, aperto nel marzo del 2012 nel quartiere Zen di Palermo, ha un ipermercato, cento negozi, un’area da più di cinquantacinquemila metri quadrati, aria condizionata, wi-fi gratis.
Pio La Torre era ed è nostro padre. Dei centri commerciali non sapeva nulla, ma nella Conca era nato e aveva visto chi aveva portato via l’oro all’orizzonte. Li conosceva famiglia per famiglia, faccia per faccia. Li aveva guardati negli occhi e aveva fatto loro paura, poi si era trasferito a Roma per combatterli con più forza e, nell’autunno del 1981, era tornato in Sicilia con la determinazione di sempre. Forse ancora di più.
Noi, i suoi due figli, non eravamo con lui in quei mesi. Eravamo adulti, non vivevamo più con i nostri genitori. Altri impegni – il lavoro, la leva militare – ci tenevano lontani dall’isola: avevamo le nostre vite nella capitale, dove ci eravamo trasferiti da oltre un decennio e dove viviamo tuttora.
Neanche nostra madre tornò a Palermo, non avrebbe avuto senso. Pio stava a Roma dal martedì al giovedì per i lavori parlamentari e, quando scendeva in Sicilia, preferiva avere mani libere e nessuno che lo aspettasse per cena. Tutti lo sanno, Pio volle tornare mentre l’isola bruciava di polvere da sparo. Gliel’abbiamo sconsigliato, lui non ci ha ascoltato.
Molto di questo è già stato raccontato. La seconda guerra di mafia, il sacco di Palermo (cioè la fine della Conca d’Oro), la scelta di tornare. È un pezzo della storia del nostro Paese, ormai è materia da storici. Eppure, al racconto dell’uomo ucciso il 30 aprile 1982, quel siciliano che è parte della storia d’Italia e che era ed è nostro padre, mancano dei tasselli.
Sarà bene dirlo subito: sono tasselli che agli storici non interessano, passaggi e suggestioni che spesso si conservano soltanto nella nostra memoria, ma oggi vorremmo lasciarli uscire, farli respirare e riflettere la luce del sole. Messi in fila, dopo trentacinque anni, questi piccoli frammenti di vita restituiscono qualcosa di importante. Non su nostro padre, di nostro padre. Ce lo fanno riscoprire per quello che era, per come lo abbiamo conosciuto e per come è rimasto dentro di noi. Ci fanno trovare nuove risposte alla domanda che ci viene rivolta da quasi tutta la vita, una domanda difficile, se presa sul serio: chi era vostro padre?
Sono passati trentacinque anni dalla sua scomparsa. Papà aveva meno dell’età che oggi noi ci portiamo addosso. Siamo diventati più vecchi di lui, ed è una sensazione strana quando capita di rifletterci. Pensiamo a papà come a un uomo giovane, con meno esperienza di noi e un ipotetico lungo futuro davanti. Oggi avrebbe novant’anni. Chissà se ci sarebbe arrivato.
Non lo sapremo mai: papà ha subito il medesimo destino della sua Conca d’Oro. Distrutta dalla mafia e dalla politica, oggi ne rimane poco più del nome che, a volte, è per giunta usato in modo inappropriato, usurpato e svilito.
Così è per Pio La Torre: spesso è dimenticato come tante altre vittime di quegli anni terribili, spesso è ricordato solo per un doveroso ma formale riguardo, in una liturgia che non distingue e non mette nessuno in discussione. Il tempo che passa è impietoso: si appiglia alle persone che non ci sono più e ne fa dei personaggi disegnati a due dimensioni, incasellati nelle loro piatte categorie. Per papà la categoria è “vittime della mafia”. Ma ciascuna delle vittime, vista da vicino, ha qualcosa di unico: una domanda, uno sguardo e la battaglia che si sono scelte e per la quale hanno pagato. Per papà quella domanda, quello sguardo e quella battaglia erano tutto, erano il senso che lui dava alla sua esistenza, e questo è il motivo per cui non era un uomo facile da contenere e gestire, e lo stesso per cui oggi non è un uomo facile da ricordare.
A volte la realtà la vediamo tutta al contrario, sottosopra o in negativo. Capita di scambiare cause ed effetti, vittime e carnefici, perfino cielo e terra. Allo stesso modo ci sembra spesso di pensare – perfino a noi – che l’esercizio del ricordo di nostro padre, del ricordo vero, sia qualcosa che dobbiamo a un uomo che si è sacrificato per una battaglia che è anche nostra. Non è così, è tutto l’opposto. Pio è morto trentacinque anni fa, a Palermo, mentre percorreva insieme al suo amico Rosario Di Salvo un vicolo lungo e stretto dal quale non sono mai usciti. Il bene che potevamo fare a nostro padre, che chiunque poteva fare a nostro padre, andava fatto prima di quel momento, ma oggi, quando lo ricordiamo, quando si cerca di rammentare Pio La Torre e di farlo per bene, non lo si fa per lui, lo si fa per noi che siamo rimasti.
Siamo noi che spesso perdiamo la speranza nel futuro, lui non lo ha mai fatto. Siamo noi che ci lasciamo abbattere da una realtà che sembra non cambiare mai, non lui. E siamo noi ad essere rimasti su questa terra, in questo Paese ancora pieno di mafia e corruzione mentre lui, purtroppo, non c’è più. Per questo abbiamo ancora bisogno che Pio La Torre ci spieghi che tutto può cambiare, che bisogna trovare la forza di crederci, e che lo faccia nell’unico modo in cui oggi può farlo, con il suo esempio.
Spesso il ricordo delle persone eccezionali può aiutarci.
L’Italia è una meraviglia macchiata del sangue di chi ha continuato, controcorrente, a credere nella giustizia in cui vorremmo credere ancora. Ma il tempo, l’abitudine e molto altro hanno storpiato le immagini di quegli uomini e di quelle donne, hanno frapposto tra noi e loro una serie di protezioni, per difenderci e farci restare tranquilli. Il passato è conservato sotto vetro: non ci fa male, ma non può difenderci dal presente. Così noi, proprio mentre ricordiamo quelle persone, continuiamo a dimenticarle, proprio mentre le cerchiamo, continuiamo a perderle di vista.
Nostra madre, invece, non ha mai lasciato suo marito. Non ne ha costruito un’immagine consolatoria, ha sempre tenuto con sé il ricordo di Pio, quello vero, quello che le faceva male proprio perché era il più bello. Nella sua ultima intervista, concessa quando aveva più di ottant’anni, parlava ancora di papà con occhi lucidi, faticando a addomesticare l’emozione. Anche noi dobbiamo fare i conti con quella fatica, e la riconosciamo e l’abbiamo riconosciuta in uomini e donne che hanno condiviso con Pio un grande progetto o, magari, solo un paio di bicchieri di vino. Incontriamo spesso persone desiderose di raccontare e ricordare chi fosse davvero nostro padre, perché quell’uomo fosse tanto eccezionale o soltanto il motivo per cui gli hanno voluto bene, perché papà suscitava emozioni che gli sono sopravvissute e, a sentire i racconti di chi ha sognato con lui, Pio La Torre era un uomo di cui non ci si sarebbe potuti dimenticare.
Eppure non è andata così. A trentacinque anni dalla morte sono tantissimi, soprattutto i più giovani, a non sapere chi sia stato Pio La Torre o ad accontentarsi di una descrizione vaga, stereotipata e inoffensiva. Ci piacerebbe allora ricordarlo per l’uomo complesso, a volte rigido ma schietto, che era e che abbiamo conosciuto. Ci piacerebbe ricordare la sua storia, bella anche se finita in tragedia.
Per noi il ricordo di papà è un conforto e portare il suo nome ci dà orgoglio. Non perché è stato ucciso: questo non è dipeso da lui, non interamente. Quello che conta di papà sta nella sua vita, non nella sua morte, e nella forza, nelle convinzioni e nelle debolezze, nell’estrema coerenza che ha dimostrato ovunque, dai banchi del Parlamento al salotto di casa nostra. Non è mai stato semplice fare i conti con Pio La Torre. Quando mamma ci chiese di convincerlo a rimanere a Roma, a non tornare in una Sicilia dove la mafia stava uccidendo come non mai, uno di noi, Filippo, tentò senza speranza una lunga strada di mediazione; l’altro, Franco, le disse che Pio non era tipo da cambiare idea su questo genere di cose. Avevamo ragione nell’essere scettici, aveva ragione mamma nel volerci provare comunque.
Alla fine lui è andato, e capire le ragioni profonde di quella scelta, capire il motivo per cui un uomo arriva a rischiare la vita per quello in cui crede, non è banale, ci aiuta, ci serve anche dopo trentacinque anni. Possiamo per il momento spiegarlo in sintesi, ma se la sintesi non basterà è perché in quella scelta si condensano più di cinquant’anni di storia di un uomo, ciò che lui era e voleva essere, cioè tutto quello di cui parla questo libro.
Ma da qualche certezza bisogna partire, e allora va scritto che in quei giorni tutti gli chiesero di restare a Roma, famigliari, amici e compagni di partito, però Pio si rifiutò, perché ascoltandoli avrebbe abbassato la maschera, mostrato che le sue convinzioni potevano essere negoziate e, se necessario, messe da parte. Ma papà non poteva farlo perché non aveva nessuna maschera da togliere, e questo è il primo motivo per cui Pio La Torre imbarazza e mette ancora in discussione. Aveva il vizio e il coraggio di andarsene in giro per il mondo mostrando nient’altro che la sua faccia, con sincerità e coerenza, e quando è così, quando non stai fingendo, c’è solo un posto dove puoi andare, quello dove devi stare per non rinunciare a te stesso. Era quindi inevitabile che papà quel giorno, nell’autunno del 1981, uscisse dalla porta di casa e dicesse: Vaiu a Palermu.