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La picconata più recente (ma forse non sarà neppure l’ultima) l’ha data il Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa. Chiamato a pronunciarsi su un reclamo presentato dalla Cgil e appoggiato dalla Confederazione europea dei sindacati, il Consiglio ha decretato: l’Italia viola il diritto dei lavoratori licenziati senza valido motivo “a un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione” come previsto dall’art. 24 della Carta sociale europea. Si tratta di un importantissimo riconoscimento sovranazionale alla lunga battaglia intrapresa dalla Cgil tra il 2014 e il 2015 contro i tanti provvedimenti di legge del governo Renzi che hanno smontato pezzo a pezzo il diritto del lavoro in Italia, da sempre uno dei più avanzati in Europa. E ora l’Europa lo riconosce: le politiche neoliberiste erano sbagliate e ledono i diritti fondamentali dei lavoratori. La Cgil non stava dalla parte del torto.
Prestoria: lo scontro sull’articolo 18
La lunga marcia comincia all’inizio del nuovo secolo. Già dal 2001 entrano in crisi le relazioni industriali in Italia, in un contesto politico che vede l’entrata in campo del centrodestra di Silvio Berlusconi. È il 2002 l’anno del primo scontro sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, di cui la Confindustria chiede la cancellazione totale. Ma totale è anche la risposta della Cgil guidata allora da Sergio Cofferati. Una mobilitazione che sfocia il 23 marzo in una delle più grandi manifestazioni della storia sindacale: tre milioni di persone al Circo Massimo (700 mila secondo la polizia, ma migliaia di persone non entrano neppure nell’arena romana). Contesto politico molto teso: quattro giorni prima della manifestazione di Roma le Nuove Brigate Rosse uccidono il giurista Marco Biagi. Da allora la Cgil non si è più fermata e la mobilitazione contro la cancellazione dell’articolo 18 è proseguita anche con il passaggio della guida del sindacato prima a Guglielmo Epifani e poi a Susanna Camusso.
Storia: come nasce il Jobs Act
Scavallato il ventennio berlusconiano, l’opera di dismissione del diritto del lavoro italiano ricomincia nel 2014, quando Matteo Renzi, segretario del Pd, ha una grande idea: per superare la crisi economica e risolvere il problema atavico della disoccupazione, occorre semplificare la normativa sui licenziamenti rendendoli progressivamente liberi. E visto che Letta alla fine si era fidato di quel “stai sereno”, una volta arrivato a Palazzo Chigi Renzi avvia l’intervento legislativo dando mandato al ministro Giuliano Poletti, ex dirigente di primo piano della Lega delle cooperative, di redigere i primi documenti. Dal quel primo decreto parte la sfilza: dieci decreti legislativi.
La Cgil nazionale non rimane a guardare e presenta una denuncia alla Commissione europea contro la riforma del lavoro varata del governo perché in contrasto con la prevalente disciplina europea sul lavoro. Si insiste, in particolare, su un punto: la legge 78, eliminando l’obbligo di indicare una causale nei contratti a termine, sposta la prevalenza della forma di lavoro dal contratto a tempo indeterminato al contratto a tempo determinato, in netto contrasto con la disciplina europea. Il governo Renzi se ne fa una ragione e va avanti nella grande operazione del Jobs Act (termine mediato e stiracchiato dalla cultura anglosassone).
Piazza San Giovanni
Nell’ottobre del 2014 la Cgil torna in piazza (questa volta a piazza San Giovanni) per rispondere agli attacchi ai lavoratori. Stavolta è Susanna Camusso a parlare dal palco e a promettere che la Cgil non si fermerà e che soprattutto lavorerà per ricostruire il diritto del lavoro. Su quel palco c’è anche Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, il sindacato storico dei metalmeccanici. "Un governo che si dice di sinistra – obietta Landini – non può fare politiche di destra. Questa piazza unisce e non divide, la divisione l'ha cercata Renzi. È una manifestazione enorme, il governo ci ascolti, non faccia accordi solo con Confindustria".
Ma anche questa volta gli appelli di Susanna Camusso e di Maurizio Landini non vengono ascoltati dalle parti di Palazzo Chigi, che nella cartografia di quel periodo era molto distante da piazza San Giovanni. È del marzo 2015 il decreto legislativo 23 che, modificando l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, dispone che in caso di licenziamento senza giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro dovrà versare al lavoratore dipendente un indennizzo.
Orizzonte Carta dei diritti
La Cgil, oltre alle mobilitazioni di piazza e nelle aziende, non lascia mai niente di intentato. Sostenuta da un nutrito gruppo di giuristi, presenta in Parlamento la Carta dei diritti universali del lavoro e propone tre referendum sociali, che però vengono bloccati. Da allora è tutto un fiorire di sentenze contro il Jobs Act e a favore della battaglia del sindacato. Tra queste la sentenza della Corte costituzionale 194/2018 e le numerose questioni ancora pendenti presso la Corte costituzionale e la Corte di Giustizia Ue.
Il 26 settembre la Corte costituzionale dichiara illegittimo l’articolo 3, del decreto legislativo 23/2015 sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte – non modificata dal successivo decreto legge 87/2018, cosiddetto “decreto dignità” – che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato. Si conclude quindi positivamente una vicenda giudiziaria che la Cgil ha fortemente voluto e coltivato, che prende le mosse dalla sentenza con cui, il 27 gennaio 2017, la stessa Corte costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità del referendum promosso dall’organizzazione per l’abrogazione del decreto 23/2015 e di alcune parti della riforma Fornero del 2012, con l’obiettivo di sostenere l’iniziativa legislativa popolare della Carta dei diritti.
Infine, arriva anche la sentenza della Corte di Appello di Napoli. “Il Jobs Act fa acqua da tutte le parti. Per noi è una buona notizia, perché è un ulteriore tassello di una battaglia che la Cgil ha condotto per anni in solitudine”, recita una nota della segretaria confederale Cgil Tania Scacchetti: “La Corte d'appello di Napoli ha rinviato alla Corte costituzionale e alla Corte di giustizia europea la disciplina sui licenziamenti collettivi della riforma del mercato del lavoro voluta dal governo Renzi in quanto discriminatoria. Con la Carta dei diritti universali, la Cgil ha messo un punto fermo per la ricostruzione del diritto del lavoro”. Un punto, come ha sottolineato più volte il segretario generale Maurizio Landini, disatteso dalla politica. Ma questa è storia di questi giorni (e dei prossimi).