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Tutto chiuso? Quasi. Il Paese si è svegliato nella spaventosa desolazione di una scelta responsabile, che pure ci lascia sgomenti. Ci siamo ritrovati prigionieri di quei video silenziosi che arrivavano dalla sconosciuta ed esotica Wuhan non più di un paio di mesi fa, girati dalle finestre dei grattacieli residenziali affacciate su strade deserte senza passanti né auto. #iorestoacasa non è bastato, non poteva bastare contro questo nemico subdolo e invisibile. Il virus, fuggito da un qualsiasi disaster-movie hollywoodiano di serie B, è diventato quanto di più reale e crudo intere generazioni, le prime salve da ogni guerra, potessero incontrare sul loro cammino immacolato.
Tutto chiuso quindi? In realtà no. E non parliamo dei servizi essenziali che – avendolo già scritto più volte in molti dei pezzi pubblicati su Rassegna.it – grazie al senso di responsabilità, al coraggio e alla lealtà di alcune categorie di lavoratori, devono continuare a funzionare. Parliamo delle fabbriche. Tutte indistintamente. Non solo di quelle farmaceutiche. O, semmai ce ne fossero in Italia, di quelle delle maledette mascherine. Ma di stabilimenti industriali in genere. Già.
Mentre il presidente Conte snocciolava una lunga sequela di esercizi commerciali che, è parso logico a tutti, avrebbero dovuto restare chiusi (bar, pub, ristoranti, parrucchieri, centri estetici), abbiamo capito che ai grandi e piccoli siti produttivi non sarebbe stata ordinata la serrata. Un vecchio slogan, gridato nei cortei, si chiedeva come mai a pagare fossero sempre gli operai proseguendo, con un filo di speranza, con un “d’ora in poi”. D’ora in poi, niente.
Le fabbriche resteranno aperte, ma il governo si raccomanda di assumere protocolli di sicurezza. Quella che non si riesce a garantire nella normalità, non si capisce proprio chi dovrebbe controllarla in questo caos. Neanche il flagello del Coronavirus riequilibra i torti di una lunga storia. E gli operai, che siano tanti o che siano, ci si lamenta sempre, rimasti in pochi; che siano comunisti o che siano della Lega; che siano l’anima del boom o che siano in cassa integrazione o vittime di delocalizzazione; gli operai continuano a essere considerati gli ultimi.
Ha fatto bene la Fiom a giudicarlo inaccettabile e ad aver chiesto un confronto urgente al governo e gli ammortizzatori sociali. E mentre aspettiamo la risposta di Palazzo Chigi, anche questa mattina le tute d’Italia, blu, verdi, rosse, bianche, saranno costrette a uscir di casa, e quasi tutti gli altri gli getteranno dalle finestre chiuse uno sguardo di solidarietà. Che, tanto per cambiare, la classe operaia, aspettando il paradiso, va al lavoro.