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Quella sull’inclusione è l’ennesima uscita propagandistica del ministro Valditara che, ancora una volta, ha utilizzato un’intervista a mezzo stampa (su Libero, in sintesi proponendo classi differenziali o percorsi riservati per chi non ha requisiti linguistici sufficienti, ndr) per prospettare interventi che, se attuati, porteranno a un sostanziale capovolgimento della idea di inclusione che caratterizza il nostro sistema scolastico.
Il ministro affronta una questione secondo una logica emergenziale, ignorando il fatto che oggi l’immigrazione di prima generazione è un fenomeno in diminuzione, mentre più diffusa nelle scuole è la presenza di alunni di seconda generazione, per i quali non è certo la lingua a costituire il principale ostacolo all’inclusione
Ma anche se di questo si trattasse, la segregazione è la risposta più sbagliata. Le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi, apprendono solo in un contesto di relazione, soprattutto tra pari, che costituisce il fondamento motivazionale ineludibile.
Il riferimento ad altri modelli europei, per esempio quello belga, è un esempio di come si intenda reintrodurre la logica delle classi differenziali che in Italia dovrebbe essere stato soppiantato ormai quasi 50 anni fa.
Ricordiamo, per esempio, che nel nostro Paese, già prima della legge 517/77, le classi differenziali erano frequentate da alunne e alunni, figli delle grandi migrazioni da Sud verso Nord e spesso provenienti da contesti socio-culturali svantaggiati, che parlando quasi esclusivamente il dialetto, venivano classificati come deficitari dal punto di vista cognitivo.
Oggi, di strada se ne è fatta, ma il ministro non lo sa e continua a considerare il plurilinguismo come un deficit da estirpare.
Tant’è che la sua proposta parla anche di corsi di alfabetizzazione per le famiglie, da svolgere nelle stesse scuole frequentate dai figli (delegittimando quindi la funzione dei Cpia che anche a questo sono designati e che appartengono a pieno titolo allo stesso sistema scolastico del suo dicastero) per evitare il “pericolo” che a casa si torni a parlare la lingua d’origine.
Il ministro non sa, o forse proprio perché lo sa dice quel che dice, che il mantenimento della lingua madre, che è la lingua delle emozioni, dei ricordi, della propria storia e identità è importante per una crescita armonica, senza strappi.
Per lui, evidentemente, il diritto di cittadinanza passa attraverso la rimozione delle proprie origini e un processo di totale assimilazione. Scarsa lungimiranza o razzismo?
Ultima ma non meno importante la questione delle risorse. Il ministro parla di stanziamenti aggiuntivi, ma in realtà fa riferimento in buona parte ai fondi Fami 21/27 che sono già stati assegnati; quanto al resto non indica dove intende attingere.
Noi della Flc continuiamo a ritenere che il punto non sia comunque l’assegnazione di soldi estemporanei, ma affrontare la questione in modo strutturale, attribuendo alle scuole le risorse finanziarie e professionali per ampliare l’offerta formativa, in un’ottica di sistema, e consentire la realizzazione di un modello inclusivo per tutte e tutti.
Manuela Calza, segretaria nazionale Flc Cgil