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560 feriti, 360 arrestati e fermati, 25 milioni di euro di danni, 62 manifestanti e 85 appartenenti alle forze dell’ordine sotto processo. Saranno questi i numeri dei "Fatti di Genova", la perdita dell’innocenza della nostra generazione, una cesura, quel punto che divide irrimediabilmente la nostra storia - personale e collettiva - in un prima e in un dopo. Genova di Carlo Giuliani, dei lacrimogeni, degli spari, delle violenze, del sangue.
Genova della Scuola Diaz. L’omicidio, la mattanza, la sospensione delle garanzie costituzionali in una scuola e in una caserma, sotto gli occhi di ministri della Repubblica e politici troppo distratti per vedere, per capire, per reagire durante e tristemente anche dopo gli avvenimenti. Genova e quel senso d'ingiustizia che non riesci a mandare via neanche dopo più di vent'anni.
Ognuno ha la sua immagine di quei giorni, il suo ricordo. Ciascuno di noi ricorda perfettamente dove fosse e cosa stesse facendo nell’attimo degli spari a Carlo, un ragazzo, come noi. Il suo corpo a terra in quella posa terribile e innaturale, quell’urlo “Dio mio no…” che squarcia il silenzio, entra in milioni di case e continua a rimbombare nelle nostre teste.
Carlo in tuta e canotta, il passamontagna sul viso, l’estintore in mano. Carlo e Mario. Due ragazzi più o meno coetanei. Mario spara. Carlo muore, caduto a terra e investito due volte dal Defender dei carabinieri.
“Il 20 luglio 2001 - dirà papà Giuliano - alle tre del pomeriggio, ho sentito Carlo al telefono. Era in piazza Manin e il clima in città era teso. Gli dissi di stare attento. È stata l’ultima volta che ho parlato con lui. Poi, alla sera, la polizia ha suonato alla porta. Siamo stati accompagnati in Questura dove, senza troppi giri di parole, ci hanno detto che Carlo era morto (…) Sono passati vent’anni. Per un genitore il tempo conta poco. Perdere un figlio è la cosa più terribile che possa capitare. Ogni giorno il mio pensiero e quello di mia moglie Haidi torna a quel 20 luglio. Dopo vent’anni, però, voglio ribadire le mancate risposte al Paese. Resta la ferita di quel processo che non si è mai fatto. Per Carlo, la cosa più grave è stata l’archiviazione”.
“Ha fatto anche i suoi errori - aggiungerà Giuliano - ma un ragazzo di 23 anni non merita di morire così. Di lui rimangono le persone che vorrebbero giustizia per quello che è accaduto a Genova”. Giustizia per quel che è accaduto a Genova il 20 luglio e il giorno successivo.
La sera del 21 luglio 2001, tra le 22 e mezzanotte, nella scuola Diaz di Genova, dove 93 ragazzi si sono sistemati per passare la notte, fanno irruzione i reparti mobili della Polizia di Stato con il supporto operativo di alcuni battaglioni dei Carabinieri.
Un giorno terribile e indelebile nei ricordi di tutte e tutti noi, nel quale, anche secondo quanto stabilito dai giudici della Corte di Strasburgo, sarà violato l’articolo 3 della convenzione europea dei diritti umani sul “divieto di tortura e di trattamenti disumani o degradanti”.
“Chiedi cos’era la Diaz - scriverà a distanza di 20 anni Marco Damilano - chiedi che cosa è successo a Genova. Chiedilo a un ragazzo di venti anni che nel 2001 era appena nato. Cosa successe in quell’estate breve durata due mesi. Dal pomeriggio del 20 luglio, quando Carlo Giuliani cadde in una pozza di sangue, al pomeriggio dell’11 settembre a New York. "L’intero mondo abitato cambiò", sono le parole che lo storico Ibn Khaldun scrisse quasi sette secoli fa a proposito dell’epidemia di peste nera del 1348 che gli aveva strappato i genitori, tornate tragicamente attuali nell’ultimo anno con la pandemia di Covid-19. Ma il mondo intero era già cambiato venti anni fa, all’alba del secolo e del nuovo millennio. Quando la globalizzazione lucente degli anni Novanta - la caduta dei muri, la Rete nuova agorà democratica - aveva mostrato il suo volto violento. A New York. E prima ancora per le strade di Genova”.
Quella Genova, quell’Italia tutta che “non ha scordato perché è difficile dimenticare”. Perché “resta, amara e indelebile, la traccia aperta di una ferita”.