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Chi lavora in agricoltura è povero: ha una retribuzione media di 6 mila euro lordi all’anno, che arriva a 12 mila se ha anche un rapporto di lavoro in un altro settore. È irregolare nel 30 per cento dei casi: 200 mila in termini assoluti secondo le stime Istat. È spesso sottoposto a fenomeni di sfruttamento e caporalato, finendo in meccanismi controllati dalla criminalità organizzata e, se è donna, è ancora di più una potenziale vittima.
Il VII Rapporto Agromafie e caporalato realizzato dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, presentato il 4 dicembre a Roma, punta i riflettori sull’irregolarità e sull’illegalità che ancora oscurano la filiera agroalimentare del nostro Paese, evidenziando la strutturalità di questi fenomeni che non investono solo il Sud del Paese, ma anche le regioni del Centro e del Nord.
Sfruttamento come modello
“Era il 2012 quando fu stilato il primo rapporto – afferma Giovanni Mininni, segretario generale Flai Cgil –. Purtroppo, a distanza di tanti anni, le evidenze empiriche e documentali emerse dall’ampio e accurato lavoro di ricerca ci restituiscono ancora una volta la fotografia di un sistema agricolo e non solo in cui illegalità, irregolarità e sfruttamento fanno parte dell’attuale modello produttivo, soprattutto per quelle imprese che hanno difficoltà a stare sul mercato e per le altre che decidono di competere nell’illegalità, scaricando sul lavoro i costi della competizione”.
Reati in crescita
Stiamo parlando di un settore che vale 73,5 miliardi di euro e che conta 872.100 occupati, di cui 472 mila dipendenti e 423 mila indipendenti, dove il lavoro nero e grigio è all’ordine del giorno, i reati e gli illeciti amministrativi nel 2023 sono cresciuti del 9,1 per cento rispetto all’anno precedente. Sono aumentate significativamente anche le sanzioni (più 27,1 per cento), le denunce (più 45,7 per cento), gli arresti (più 3,9) e soprattutto i sequestri, più che raddoppiati (220,9 per cento).
Per quanto riguarda il caporalato, nel 2023 a fronte di un aumento dei controlli effettuati (più 140 per cento rispetto al 2022), crescono gli arresti (più 80 per cento) e soprattutto si impenna il numero di reati e illeciti amministrativi (più 153 per cento), e delle denunce (più 207 per cento).
Dati contrastanti
Guardando nel dettaglio, l’insieme delle aziende che praticano il lavoro regolare ammontano a circa il 60 per cento a livello nazionale, mentre quelle che utilizzano lavoro grigio sono circa il 30, e il lavoro nero il restante 10. Questi gli ultimi dati disponibili del ministero dell’Economia e delle finanze, riferiti al 2020. I numeri che emergono dal rapporto annuale 2023 dell’Ispettorato nazionale del lavoro delineano una realtà diversa, e cioè un tasso di irregolarità pari al 69,8 per cento. Solo nel settore agricolo, su un totale di 3.529 ispezioni concluse, 2.090 hanno rilevato irregolarità, il 59,2 per cento.
Da Nord a Sud
Il fenomeno riguarda tutta l’Italia, come dimostrano i focus del rapporto Agromafie e caporalato. In Piemonte il numero di lavoratori impiegati irregolarmente nel settore agricolo o sottoposti a pesanti forme di sfruttamento oscilla tra 8 e 10 mila unità; nella provincia di Asti si contano 32 diverse località dove si consumano rapporti di lavoro informale (grigio e nero) e caporalato. Nelle province di Trento e Bolzano si stimano 6 mila occupati non standard o completamente irregolari nel settore primario e nel comparto di lavorazione e macellazione delle carni.
In Basilicata i lavoratori irregolari nel settore primario sono circa 5 mila (Istat 2023), un dato che è riferito ai soli addetti residenti, a cui vanno aggiunti i 5-7mila avventizi e pendolari sfruttati che raggiungono i principali contesti agricoli della regione. Il numero totale dei lavoratori sottoposti a forme diverse di sfruttamento supera quindi le 10 mila unità. Nel crotonese si stima un numero tra le 11 e le 12 mila persone impiegate nel lavoro nero o grigio, cifra che include anche i 4-5 mila stranieri che ogni anno vi giungono in occasione di fasi di picchi di produzione, come le raccolte.
Lavoro povero, precario, sfruttato
“È evidente la strutturalità del lavoro povero, precario e sfruttato in un settore che registra valori economici più che elevati – si legge nel rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto –. Il dato eclatante è che agli oltre 70 miliardi di margini economici generati contribuiscano donne e uomini che in media guadagnano poco più di 6 mila euro all’anno. Di fronte a questi numeri, viene da chiedersi se, aldilà dell’affermazione politica del cosiddetto sovranismo, non ci sia una volontà nemmeno troppo celata di mantenere migliaia di individui nella precarietà esistenziale e nella marginalità sociale per alimentare questo esercito di invisibili funzionali a una parte di sistema produttivo, attraverso ad esempio una legislazione sull’immigrazione che pare proprio alimentare tutto ciò”.
Azioni e proposte
Ma come recidere il filo rosso dell’illegalità e dello sfruttamento? “La legge Bossi-Fini va abolita al più presto – afferma Mininni –. E se si sceglie di competere nei mercati attraverso la qualità del lavoro e dei prodotti del made in Italy, va completamente eradicata ogni forma di precarietà. La legge contro il caporalato deve essere applicata in tutte le sue parti, comprese quelle norme di prevenzione che non hanno mai dispiegato davvero tutte le loro potenzialità. Se ci sono imprenditori e faccendieri che continuano a sfruttare le persone devono essere sanzionati, ma affinché la deterrenza delle sanzioni sia effettiva serve un maggior numero di controlli. Inoltre, è importante evidenziare che il contrasto al lavoro povero avviene anche attraverso la battaglia contro gli appalti al ribasso e per l’applicazione del giusto contratto”.