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Il 1 aprile del 1948 viene assassinato a Camporeale, al confine tra le province di Trapani e Palermo, il segretario della Camera del lavoro Calogero Cangelosi, socialista e dirigente delle lotte contadine. Da tempo nel mirino dei latifondisti del paese, viene colpito a morte alle 10 della sera mentre torna a casa dopo una riunione in cui si è discusso della conquista delle terre, dell’applicazione dei decreti Gullo sulla divisione del grano ai contadini, della concessione alle cooperative contadine delle terre incolte. Con lui altri due sindacalisti, Vincenzo Liotta e Vito Di Salvo, sono colpiti e feriti gravemente, mentre Giacomo Calandra e Calogero Natoli rimangono miracolosamente illesi.
“Quella sera lo scortavano quattro persone. Perché mio nonno - ricorderà la nipote Sonia Grechi, anche lei sindacalista della Cgil - sapeva di avere pestato i piedi organizzando i contadini in un grande movimento per l'occupazione delle terre incolte. Un esempio fulgido di cosa significa credere in ideali posti al di sopra della propria esistenza. Sono emozionata di essere qui in Sicilia a sensibilizzare i giovani nella lotta alla mafia, nella conoscenza delle storie dei sindacalisti uccisi e nella riconoscenza a chi ha dato la vita per noi. Lo devo alla mia famiglia, a mia mamma, che allora aveva solo due mesi, e a mia nonna, morta a 96 anni, che quando parlava di lui si metteva sempre a piangere. Perché è stata una perdita incomparabile. Era una figura straordinaria”.
Ai funerali di Cangelosi partecipano tutti i contadini del paese e dei comuni del circondario: in mezzo a loro e accanto ai familiari anche il segretario nazionale del Psi Pietro Nenni, venuto a onorare il suo compagno di partito (lo stesso Pertini si interesserà attraverso la rete di Solidarietà democratica della famiglia del sindacalista).
Non ci sarà mai un processo, e - nonostante tutti sapessero che a dare l’ordine di morte era stato il proprietario terriero don Serafino Sciortino (di cui Cangelosi era mezzadro) e che a sparare erano stati il capomafia Vanni Sacco e i suoi picciotti - si procederà contro ignoti.
“Quando me lo hanno portato via, povera anima del Paradiso!, io non avevo niente, non possedevo nulla, se non un affitto da pagare e quattro figli da sfamare - raccontava la moglie Francesca Serafino -. Sono stata costretta ad andare in campagna a lavorare con gli uomini. Ricordo ancora i calli alle mani, le fatiche che ho dovuto sopportare. Ma i miei figli piangevano, volevano il pane, volevano le scarpe, e io non sapevo più come aiutarli (…). Mio marito era iscritto al partito socialista e allora questo era considerato un reato. Lo avevano minacciato, ma lui mi diceva di non preoccuparmi perché non faceva male a nessuno. Calogero era un uomo sincero: quando è morto ha pianto tutto il paese. Ho cercato di ottenere una pensione minima, ma non ci sono riuscita. Poi, su consiglio di mio fratello, ci trasferimmo a Grosseto”.
“La mia mamma aveva solo due mesi quando è morto suo padre, dirigente sindacale ammazzato dalla mafia a Camporeale. Ha vissuto col rammarico di non averlo mai conosciuto - diceva Sonia Grechi in occasione del 68° anniversario della scomparsa del nonno - La vera motivazione della morte di mio nonno l’ho saputa soltanto quando ero già grande, quando una volta con la nonna abbiamo sfogliato le foto dell’album di famiglia e c’erano quelle del funerale. Per la nonna, che si arrangiava con tanti lavoretti, era difficile crescere quattro figli. Così, dopo 12 anni dalla morte di suo marito, preferì anche lei per motivi di lavoro lasciare la Sicilia e trasferirsi a Grosseto, dove c’erano già altri parenti di mio nonno”.
Ancora Sonia affermava il 6 aprile 2018:
La storia vissuta dalla famiglia Cangelosi non ha visto come protagonista solo mio nonno, ma anche sua moglie Francesca Serafino e i suoi quattro figli, Franca, Giuseppe, Michela e Vita, donna fortissima, che ha cresciuto con la fermezza di un uomo e con la tenerezza di una madre i suoi figli. E se nonno Calogero ha perduto il bene più prezioso, quello della vita, è giusto riflettere su cosa ha subìto mia nonna, persona alla quale è stato sottratto l’amore di un marito e l’unico sostentamento e si è dovuta inventare capofamiglia nella Sicilia del dopoguerra, oppure i suoi figli che hanno perduto in tenera età l’affetto di un padre e il punto di riferimento da esso rappresentato, vivendo momenti difficili e in taluni casi non riuscendo neppure adesso a superare il trauma o le conseguenze.
Grosseto nel 1960 fu l’unica possibilità per vincere la povertà in cui la famiglia di Cangelosi, priva del suo sostentamento principale, abbandonata dalla giustizia e con tutte le difficoltà di un territorio che si stava pian piano impoverendo, si era ritrovata suo malgrado. La nonna aveva cercato di dare un futuro ai suoi figli sull’isola, senza riuscirci e dunque l’unica soluzione era quella di emigrare in continente e di raggiungere i fratelli che vivevano in Toscana, a Grosseto e dare lì una nuova vita a lei e ai suoi figli. Probabilmente è qui che è mancato lo Stato; impedire alla giustizia di fare il suo corso, non riconoscere nonno Calogero vittima di mafia, ha fatto sì che mai fosse concesso un benché minimo sostegno a chi ha dovuto subire una perdita incolmabile come quella di un marito e di un padre. Chiedo a gran voce, come è accaduto per Placido Rizzotto, che anche per Calogero Cangelosi vi sia questo riconoscimento. È solo una mera questione di giustizia e nulla più, tale da riparare a distanza di settanta anni un torto e sanare un colpevole errore della magistratura, che non ha mai condannato né il mandante, né gli esecutori materiali di quell’omicidio pagato con quattro tumuli di frumento. (…) È solo una semplice questione legata al riconoscere quell’atto per ciò che è stato realmente; una uccisione mafiosa che contempla come soluzione unica l’eliminazione materiale del “nemico”, di colui che rappresenta un potenziale pericolo per la stabilità e agli interessi economici di pochi. Restituiamo giustizia perché solo così si può continuare a dare voce a questi eroi ormai muti. Una voce da cui si possa trarre quegli insegnamenti che devono essere oggi pietra angolare della nostra società civile, innervata nella sua struttura dai principi che hanno guidato le menti di questi straordinari personaggi, esempio e guida per le generazioni più giovani e per quelle che verranno. Tocca a noi il compito di non far dimenticare, di implementarne il ricordo. Perché il ricordo è il tessuto dell’identità. Quella stessa per la quale nonno Calogero, settanta anni fa, ha sacrificato i propri amori, la sua famiglia, la sua stessa vita.
"Cosa fa un sindacalista?", ci sentiamo spesso chiedere. Ecco cosa fa. Un sindacalista fa il suo lavoro, anche quando non è facile. Un sindacalista ascolta, comprende, guida, indirizza, consiglia, quando può interviene. Un sindacalista combatte e lotta, anche a costo - e le tante biografie che continuiamo a raccontare lo testimoniano - della vita. Anche a costo, ce lo ha insegnato Giuseppe Di Vittorio, di enormi sacrifici. Ma con “la piena consapevolezza di servire una grande causa, una causa giusta”.