Uno schema classico che la politica spesso usa per tastare il terreno, registrare reazioni e poi procedere. In un’intervista rilasciata lo scorso 15 gennaio al Giornale il ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, ha anticipato alcuni contenuti delle nuove Indicazioni nazionali (che hanno sostituito cambiandoli di senso i vecchi programmi) per le scuole primarie e secondarie di primo grado. Ne abbiamo parlato con Massimo Baldacci, presidente di Proteo Fare Sapere e professore ordinario di pedagogia generale all’Università Carlo Bo di Urbino.

“Le dichiarazioni contenute nell’intervista rilasciata dall'onorevole Valditara - ci dice - non sono sufficienti per formulare un giudizio fondato sulle nuove Indicazioni. Per questo dovremo attendere il documento elaborato dalla commissione presieduta dalla professoressa Perla (e di cui fa parte anche Galli della Loggia, autore con lei del volume Insegnare l’Italia, 2023). Tuttavia, alcuni contenuti di tali dichiarazioni suscitano preoccupazione. E con questa intervista il ministro ha di fatto aperto il dibattito”.

E proprio sui temi sollevati Baldacci è autore, insieme ad Antonio Brusa (presidente della Società italiana di didattica della storia), di un documento che, ci spiega, “è stato sottoscritto da oltre 140 docenti universitari, prevalentemente studiosi di storia, pedagogia e filosofia ma anche studiosi di altre discipline Per altro, rispetto ai temi toccati dall’on. Valditara, tale documento si concentra sulla questione essenziale: la sua impostazione politico-culturale, ma anche il senso dell’insegnamento della storia”.

Partiamo allora da qui…

Nell’intervista si legge che “verrà abolita la geostoria nelle superiori e ridata centralità alla narrazione di quel che è accaduto nella nostra penisola dai tempi antichi fino ad oggi”. E poco più avanti si spiega che “l’idea è quella di sviluppare questa disciplina come una grande narrazione, senza caricarla di sovrastrutture ideologiche, privilegiando inoltre la storia d’Italia, dell’Europa, dell’Occidente”. Questo modo di presentare l’insegnamento della storia crea una fondata preoccupazione. Si tratta della prospettiva chiusa, etnocentrica, del curricolo, in patente contraddizione con la dichiarata volontà di evitare di caricare la storia di sovrastrutture ideologiche.

Perché secondo lei?

In questo modo si orienta il curricolo secondo un’opzione ideologica precisa, nazionalista, eurocentrica o comunque occidentocentrica. Si rischia di piegare l’insegnamento della storia a uno scopo ideologico, coerente con l’idea di una scuola il cui primo compito è quello di formare l’identità nazionale italiana, che rappresenta il leitmotiv del libro di Galli della Loggia e Perla. Ma in questo modo, si compromette il carattere scientifico dell’insegnamento di questa disciplina.

Intendiamoci, ovviamente la comprensione delle vicende nazionali è importante, ma per capire una società multiculturale come quella odierna occorre andare oltre, allargare lo sguardo al mondo. Invece pare che si voglia rinunciare alla possibilità di una declinazione più ampia, aperta ad altri quadri di civiltà. Quadri che sono necessari per comprendere il mondo odierno.

Il che, immagino, avrà ricadute anche su come la storia la si insegna…

Certamente a questa preoccupazione si aggiungono perplessità sul profilo didattico. Concesso che la storia implichi la narrazione degli eventi, il suo insegnamento è riducibile a tale narrazione? L’impressione è che si intenda tornare alla vecchia concezione della storia come “materia”, anziché proporla nella sua veste di disciplina scientifica. Vedere la storia come materia, come mero contenuto, prelude a un insegnamento trasmissivo e nozionistico, ridotto a una galleria di eventi e di eroi (soprattutto nazionali), e magari indirizzata verso sentimenti patriottici. Significa strizzare l’occhio alla parte più conservatrice del mondo della scuola.

Come dovrebbe insegnarsi invece la storia, secondo lei?

L’insegnamento della storia come disciplina scientifica implica che non si proponga soltanto un racconto, ma si lavori per favorire la comprensione di come si costruiscono in modo fondato i racconti sul passato e sul mondo. Ciò richiede una introduzione al metodo storico, alla pratica della ricerca storica, certamente partendo dalla propria realtà locale per poi allargare progressivamente lo sguardo. Ovviamente, non si tratta di formare piccoli storici, ma cittadini critici, consapevoli del carattere costruito e prospettico delle narrazioni storiche, e quindi resi avvertiti rispetto all’uso pubblico della storia che oggi rimbalza di continuo sui media, non di rado in forme strumentali.

Legittimare una storia ridotta a mera narrazione, come fanno Galli Della Loggia e Perla nel loro libro, asserendo che “la mente del bambino non può che essere ricettiva soprattutto a storie di fatti” (p. 48), significa rinunciare a priori a stimolare la crescita intellettuale del bambino. Adagiarsi su una sua supposta inclinazione, invece di proporsi di formare gli atteggiamenti mentali coerenti con la logica della disciplina storica, come dovrebbe fare la scuola. Come scriveva Rodari, nella sua Grammatica della fantasia, il vero rischio educativo è quello di sottovalutare le capacità delle bambine e dei bambini.

Si è discusso molto anche sulla questione della memorizzazione delle poesie…

Circa la lettura e la letteratura si dicono cose in gran parte ovvie, presentate come se fossero innovazioni. I pochi elementi di novità creano comunque qualche dubbio, in particolare relativamente alla ripresa della “grande scuola della memoria” rispetto alla poesia. Non si tratta di opporsi astrattamente alla memorizzazione di alcuni testi poetici, ma si pensa davvero che la questione culturale e pedagogica della poesia nel mondo attuale sia riducibile in questi termini? Tutta la questione è che la nostra generazione imparava le poesie a mente mentre quelle attuali non lo fanno più? Mi auguro che questa semplificazione sia solo un esito dei vincoli di spazio dell’intervista (ma forse rappresenta una strizzata d’occhio alla parte più conservatrice della scuola), e che il documento abbia un taglio più ampio. Qui meglio di me potrebbe dire un esperto di didattica dell’italianistica. Ma si possono compiere un paio di osservazioni anche da un punto di vista pedagogico.

Insomma il valore della conoscenza della poesia non si può ridurre a questo tema…

Esatto. Rispetto al linguaggio comune, la poesia si contraddistingue per due aspetti fondamentali: da un lato per la sua densità connotativa, per il suo carattere polisenso; dall’altro per l’attenzione al messaggio in quanto tale, alla sua forma, che Jakobson definiva appunto come la funzione poetica del linguaggio. Dal punto di vista educativo, questo specifico valore della poesia pone la questione della sua ricezione e comprensione, che richiedono la mediazione didattica del docente. Starnone ha fornito una gustosa raffigurazione della memorizzazione della poesia Pianto antico, del Carducci, non sorretta da un lavoro di comprensione del testo. L’unica memorizzazione della poesia che ha valore formativo è quella che rappresenta l’esito collaterale di un lavoro sulla ricezione e la comprensione del testo, capace di coinvolgere l’allievo a livello cognitivo ed emotivo. Si imprimono veramente nella mente e nella stessa corporeità soltanto quelle poesie che – anche attraverso un’accorta mediazione del docente – colpiscono la nostra sensibilità grazie alla loro sonorità, al loro ritmo e al loro senso (anzi, alla loro pluralità di sensi).

Pensare che la mente possa essere potenziata dalla memorizzazione di “filastrocche, scioglilingua e altro” mi pare fuorviante. Basta tornare a far imparare La vispa Teresa? Dalla letteratura psicopedagogica sappiamo che il potenziamento della memoria richiede una prospettiva metacognitiva, che renda maggiormente consapevoli del processo di memorizzazione e ne promuova strategie di controllo.

Soprattutto con i più piccoli, poi, la funzione poetica del linguaggio è anche ludica…

Proprio così e consiste nel giocare con le parole e con le forme dei messaggi. A questo proposito, nella sua Grammatica della fantasia, Rodari ha lasciato indicazioni didattiche fondamentali (si veda il capitolo sull’utilità di Carducci), mettendo in relazione questa promozione della capacità di giocare con i versi poetici con una dilatazione dell’immaginazione e della creatività del bambino (che – come scriveva Vygotskij, uno dei massimi studiosi di psicopedagogia del Novecento – differisce da quella dell’artista per quantità ma non per genere, così come la lampadina e il fulmine). Spero che il testo della commissione non eluda la complessità culturale e formativa della poesia.

E del latino alle medie cosa pensa?

Circa la questione del latino, anche in questo caso non se ne deve fare una questione identitaria. Niente da dire sul fatto che la conoscenza di elementi della lingua latina possa permettere di comprendere meglio certi aspetti della lingua italiana, anche se studiosi del calibro di Luca Serianni (si veda il suo volume L’ora di Italiano) hanno sottolineato che questo non vale sempre necessariamente. Nell’intervista, il ministro asserisce di pensare di “reintrodurre opzionalmente elementi di latino già dalle medie, dalla seconda media per la precisione”. Non è chiaro cosa si intende. Si sta pensando di reintrodurlo come materia facoltativa? Ma se si ritiene che il nesso tra latino e italiano sia necessario, allora il suo insegnamento dovrebbe riguardare tutti gli alunni, e dovrebbe essere integrato all’interno dell’insegnamento della lingua italiana, nelle forme e nei limiti in cui è funzionale ad esso, e nei termini di una raccomandazione (lasciando ai docenti la scelta dei tempi e dei modi per muoversi in questo senso). Scorporato e reso facoltativo tende a diventare una misura che attiva percorsi curricolari differenziati, funzionali alla stratificazione sociale della popolazione studentesca, prefigurando precocemente esiti diseguali (chi andrà al liceo e chi no).

E poi c’è la Bibbia… anche qui siamo di fronte a un’ideologia identitaria?

Rispetto a questo, che è subito rimbalzato sui media, non si deve cadere nella trappola di proporla come fondamento identitario in una scuola che è di fatto multiculturale. Niente in contrario se la lettura di brani della Bibbia e dei Vangeli viene proposta all’interno di una storia delle religioni, ovviamente insieme alla lettura di passi di altri testi, quali il Corano, testi buddisti e altro. Anche nella nostra società secolarizzata, in cui si parla di tramonto del sacro, le religioni hanno uno spazio importante. E un’educazione interculturale deve includere anche una conoscenza della similarità e delle differenze tra le varie religioni, per favorire il dialogo e la comprensione reciproca. Aspetti, questi, fondamentali per sviluppare una cultura della pace. Una lettura curvata a scopi identitari sarebbe una strizzata d’occhio alla parte più conservatrice del mondo cattolico.

Ancora non abbiamo il documento, ma in sintesi, qual è il suo giudizio complessivo su questa operazione anticipata nell’intervista di Valditara?

Nel complesso, sembra emergere una scuola basata su un asse nazionalista-identitario, che torna a impostazioni retrive e antiegualitarie. Certamente, spero che queste perplessità siano dissipate dal documento elaborato dalla commissione, di cui una breve intervista non può dare un resoconto esauriente. Nel frattempo, saremo in molti a continuare a rimanere preoccupati.

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