Secondo il bollettino epidemiologico nazionale veterinario, ci sono ventuno focolai di aviaria sul territorio italiano da gennaio 2025, più di 70 dall'inizio della stagione influenzale, ottobre scorso: in Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia e, per ultimo, Piemonte. Tutti a oggi estinti, tranne uno.

Il virus A-H5N1, una malattia altamente contagiosa che colpisce prevalentemente il pollame e i volatili acquatici selvatici, sta mettendo in ginocchio numerosi allevamenti anche in Europa (39 focolai nei volatili domestici e 676 negli uccelli selvatici) e in tutto il mondo, con danni economici ingenti.

Dai polli alle mucche

Dal 2003 al 2023 sono stati segnalati focolai in 23 Paesi a livello globale. Si tratta di un’emergenza che non è mai finita e che si sta allargando. Mentre la maggior parte dei casi nella Ue riguarda uccelli selvatici e domestici, negli Stati Uniti si registra un aumento significativo della diffusione nelle bovine da latte: fra i suoi salti di specie nei mammiferi, infatti, è arrivata a colpire le mucche, con una nuova variante segnalata che ha coinvolto 929 allevamenti in 16 Stati degli Usa.

L’uomo non è immune

Sappiamo che l’uomo non è immune al contagio. È scoppiata un’epidemia nel 2013, dovuta a un altro ceppo, in Cina dove un’altra ondata di infezioni ha raggiunto il picco nel 2016-2017 con quasi 800 casi. A livello mondiale sono oltre 1.500 i casi di infezione umana e almeno 615 i decessi segnalati all’Oms dal 2013 a oggi. L’infezione si è manifestata principalmente nelle comunità che consumano animali provenienti da mercati di pollame vivo.

Mercati vietati

Non è un caso che il governo britannico abbia imposto in questi giorni il divieto di fiere con "assembramenti di volatili", mentre a New York le autorità hanno ordinato la chiusura temporanea dei mercati di pollame vivo. Decisioni che evidenziano la gravità della situazione, mirati a ridurre il rischio di contagio tra gli animali e, potenzialmente, anche agli esseri umani.

Impatto occupazionale

E in Italia, che cosa sta succedendo? Nel mantovano da novembre a oggi sono stati abbattuti più di un milione 500 mila capi nel settore avicolo a causa di diversi focolai. Una diffusione che preoccupa il sindacato per le ricadute occupazionali.

“Si sono rivolti a noi molti addetti del settore con contratti a tempo determinato, che non lavorano già da alcune settimane a causa degli abbattimenti – dichiara Ivan Papazzoni, segretario generale Flai Cgil Mantova –. Molti di loro rischiano anche di non vedersi riconosciuta la disoccupazione agricola, perché se non lavoreranno le giornate necessarie non potranno accedere a questo ammortizzatore sociale”.

Alla ricerca di ammortizzatori

E cioè 102 giornate nell’ultimo biennio. Se si rimane a casa perché non ci sono capi nell’allevamento, questa soglia è difficile da raggiungere. “A seguito degli abbattimenti l’allevatore chiede un sussidio, ma per i lavoratori non c’è niente – prosegue Papazzoni -. Abbiamo chiesto all’Inps di prevedere una soluzione simile a quella messa in campo per il Covid, o alla Cisoa, cassa integrazione speciale operai agricoli in caso di emergenza climatica, ma circolari al momento non ne sono arrivate”.

Lavoratori a termine

Quindi i lavoratori rimangono scoperti, soprattutto i più deboli, cioè quelli a termine. Sui tempi indeterminati invece è difficile avere il polso della situazione, perché il personale impiegato è disseminato negli allevamenti ed è quasi impossibile da incrociare. “Ai datori hanno promesso ristori, ma niente per i lavoratori” conclude Papazzoni.

La situazione è sotto controllo a Verona, zona dove si trasformano gli animali. “Dopo l’epidemia che ha investito il territorio nel 2022-2023 – racconta Mariapia Mazzasette, segretaria Flai Cgil Verona -, adesso ci sono un paio di focolai, che sono peraltro contenuti, parliamo di pochi capi abbattuti. E ricadute occupazionali non ci risultano”.

Epidemia circoscritta anche nel cremasco, dove proprio l’altro giorno c’è stato l’abbattimento di 60 mila capi in un allevamento. “A differenza di quanto accade con l’epidemia da peste suina, i tempi per ripartire sono molto rapidi - spiega Fabio Singh, segretario Flai Cgil Cremona -. Una settimana dopo la disinfestazione l’azienda è di nuovo in produzione. Il danno economico c’è, naturalmente, ma è limitato”.