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Le aree interne del nostro Paese si spopolano di più e più velocemente del resto dell’Italia. Dopo oltre un decennio di crescita, che dal 2002 al 2014 ha visto a livello nazionale un aumento del più 5,9 per cento (ma con differenze territoriali notevoli), sono dieci anni che si registra un calo generalizzato dei residenti.
Dal 2014 a oggi, meno 5 per cento nelle aree interne, dove gli abitanti al primo gennaio sono 13 milioni e 300 mila, meno 1,4 nei centri urbani, che contano 45 milioni e 700 mila persone. Un fenomeno che è ancora più accentuato nel Mezzogiorno.
A raccontarci la condizione del Paese è il nuovo rapporto pubblicato dall’Istat che analizza le dinamiche recenti e le prospettive future dei fenomeni demografici nelle cosiddette aree interne. In contrapposizione ai centri urbani, queste sono molto distanti dall’offerta di servizi essenziali come istruzione, scuola e mobilità e sono composte da piccoli comuni intermedi, periferici e ultra periferici.
Fuga di lavoratori e laureati
Le aree interne non perdono soltanto popolazione in generale. L’Istat ha individuato un grosso movimento di giovani laureati che si sono trasferiti verso i centri o verso l’estero, costantemente aumentato, mentre molto meno numerosi sono stati i flussi in senso opposto. Non sempre è un processo negativo: a volte si tratta di brevi periodi di formazione, che portano poi il laureato a tornare sul territorio con maggiori competenze, arricchendo il tessuto economico. Più spesso, però, si tratta di partenze senza ritorno.
“Quello dei lavoratori e dei laureati che se ne vanno è un tema significativo – afferma Luisa Corazza, docente di diritto del lavoro all’università del Molise e direttrice di Aria, Centro di ricerca aree interne e Appennini –Emigrano giovani in età attiva, la popolazione più promettente dal punto di vista delle energie da investire nel territorio, e molti laureati. Il fatto è che le aree interne hanno bisogno di investimenti, della possibilità di starci, trovando servizi adeguati e lavoro. Un’indagine che ha interpellato i giovani delle aree interne ha rilevato la volontà da parte loro di restare. Questo significa che ci sarebbe spazio per una scelta diversa, ma questa determinazione deve essere soddisfatta dalle aspettative”.
Flussi migratori
Un altro elemento di fragilità è il fatto che quasi la metà dei flussi migratori nazionali, pari al 46,2 per cento, parte dalle aree interne del Sud, il 34,1 da quelle del Nord e il 19,7 da quelle del Centro. Sono i centri del Settentrione che accolgono la prevalenza di queste partenze, seguiti da quelli del Mezzogiorno e del Centro Italia: “La tradizionale traiettoria dal Mezzogiorno verso il Nord – si legge nel report Istat – continua a essere una delle principali direttrici della mobilità interna che interessa il Paese”.
“C’è una dinamica che separa il Sud dal Centro-Nord anche per quanto riguarda le aree interne – prosegue Corazza – Al divario più classico si aggiunge questo e quando si cumulano le due caratteristiche l’emergenza demografica si approfondisce, un elemento che risulta molto visibile dai dati”.
Alla ricerca di opportunità
Spulciando il report Istat, scopriamo che i comuni in declino al Centro-Nord sono il 31,9 per cento, al Sud il 62 per cento, quindi quasi il doppio. “Ma non è una novità – dice la docente – il Mezzogiorno conosce da tempo il fenomeno dello spopolamento da parte delle giovani generazioni, la cui emigrazione non è compensata dall’immigrazione, che invece potrebbe costituire una speranza e un’occasione di salvezza per i territori marginali. È un dato che va studiato anche per prendere contromisure; è molto importante immaginare che ci siano flussi sia in uscita che in entrata, specie quando parliamo di immigrazione straniera”.
Ma anche nel caso degli stranieri ci vogliono le opportunità: mentre le migrazioni interne sono legate a tanti fattori, primo fra tutti quello familiare, la popolazione che viene dall’estero, pur potendo scegliere qualsiasi territorio, cerca lavoro e determinate condizioni, che nelle aree interne si trovano col lumicino.
L’invecchiamento
C’è poi il fenomeno dell’invecchiamento: anche se riguarda tutto il territorio, è più accentuato nelle aree interne. Se ne vanno i giovani e restano gli anziani. “Una popolazione che farà sempre più fatica ad avere una forza produttiva – aggiunge Corazza – ma che ha bisogno di assistenza e servizi adatti, sanitari e sociosanitari ma anche di contrasto della solitudine. Le aree interne sono già ridotte all’osso in fatto di servizi pubblici, quando investono tendono a farlo in settori a favore della popolazione anziana anziché per i giovani: si preferisce aprire un centro diurno al posto di un asilo nido. Questo non fa altro che amplificare un ciclo vizioso per cui le famiglie giovani non trovano servizi adatti a loro”.
Invertire la rotta
La conoscenza del fenomeno è ormai chiara e anche che cosa ci aspetta: secondo le previsioni dell’Istat, tra vent’anni l’80 per cento dei comuni delle aree interne sarà in declino.
Che cosa si può fare per invertire la rotta? Le misure adottate in questi anni sono state diverse, a partire dalla Strategia nazionale delle aree interne, avviata dal 2012, che adesso sta vivendo il secondo periodo di programmazione.
“Questa strategia è molto importante, per la prima volta si è fatto sistema – conclude la professoressa Corazza – se prima si faceva fatica a pensare che le aree interne avessero problemi simili, che fossero collocate in Sardegna, Puglia o Piemonte, considerarle unitariamente credo sia stato un passo avanti molto importante. Gli interventi del Pnrr sono una grande opportunità, anche se i Comuni fanno fatica a intercettare le risorse disponibili ed elaborare i bandi. In questi giorni è uscita l’assegnazione dei fondi sulla base della legge sui piccoli Comuni, ma anche questa assegnazione in realtà ha lasciato scoperti una quantità enorme di enti”.