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Care compagne e cari compagni,
da due mesi sono per lavoro all’estero, in Amazzonia, e vedere sul display del telefonino a San José del Guaviare, un piccolo paese colombiano, l’attacco squadrista alla sede centrale del sindacato al quale sono iscritto da 35 anni mi ha creato subito rabbia, ma anche un certo spavento. I fascisti potevano attaccare altri luoghi, hanno scelto non a caso quello per loro più simbolico da cancellare, da violare, l’ultimo luogo fisico e politico della sinistra italiana, fatto di corpi e innervato a ragnatela in tutte le geografie del paese.
Ho scritto moltissimi reportage partendo da una Camera del Lavoro, andando sul campo insieme a compagni del sindacato, a delegati, segretari, operai, entrando con loro nelle fabbriche, in aree dismesse, ricordando stragi sul lavoro, lotte. Ogni volta ho avuto l’impressione che questo corpo di corpi, nonostante le difficoltà dell’epoca, le trasformazioni, le crisi, fosse estremamente vivo, un avamposto di democrazia in tutti i luoghi, non solo in quelli di lavoro, da Corso d’Italia a Roma, nelle terre del Tavoliere, nella Ravenna civile, le Marche calzaturiere, nei paesi sperduti dell’Appennino o del Sud, ad Amatrice dopo le macerie, fino ai presidi fuori dalle fabbriche fino all’alba. Coesi, insieme, comunitari.
Con tutti i limiti e le straordinarie capacità umane di una grande organizzazione sociale e popolare, la Cgil resta per me un punto di riferimento imprescindibile e una grande scuola di democrazia dove ho imparato la difficile arte del confronto, pure nel dissenso, che ho sempre potuto esercitare liberamente, la politica concreta, quotidiana, possibile, quella capace intanto di cambiare qualcosa subito. Quindi lo sfregio del 9 ottobre è uno sfregio non solo contro un simbolo, ma contro questo grande corpo di corpi che siamo, è una ferita anche mia, che mi riguarda. E sconcerta anche l’attacco successivo alla Camera del Lavoro di Milano, gli insulti sui social, proprio nel momento difficile di un vile attentato, come se quell’attacco squadrista invece che una violenza reale e inaudita quale è stato fosse invece quello spettacolarizzato di un film, di uno sceneggiato televisivo, qualcosa sul quale si può anche scherzare o minimizzare.
Questa caduta agli inferi di quello che una volta si chiamava coscienza collettiva o solo buon senso, sconcerta ancora di più, forse spia di una deriva psicologica e sociale dopo due anni di pandemia, ma anche dopo decenni di precarietà, di ricatti, delocalizzazioni, perdita di posti di lavoro, di sconfitte, scomparsa della sinistra dalla scena sociale, mercificazione della cultura, umiliazione del sapere e degli intellettuali, e della barbarie prodotta dalla comunicazione social, un mondo nuovo che dobbiamo riuscire a capire prima che tutto diventi ancora di più pericoloso e dannoso.
Così, in procinto di tornare a casa dopo due mesi di viaggio sul Rio Negro per raccontare le popolazioni indigene minacciate, un genocidio infinito, ma anche la natura bellissima, struggente della selva, anche se non potrò partecipare alla manifestazione di sabato, ho pensato di scrivervi per manifestarvi tutta la mia vicinanza e il mio affetto in un momento umano e politico difficile, che sono certo sapremo con intelligenza e tenacia affrontare, perché oggi più che mai “Quel che non cambia / è la voglia di cambiare”, come recita un verso del poeta americano Charles Olson.
Angelo Ferracuti, scrittore