“Io sto tornando con le vesciche sotto i piedi, le gambe che tremano e le ginocchia che sembra debbano saltare da un momento all’altro per il dolore…ho provato a parlarne con la manager, quasi mi insultava…boh” (dalla chat di alcuni lavoratori, novembre 2020).

Eccola la didascalia di Amazon, spogliata della patina promozionale che gli attori felici, dalle tute brandizzate, donano, in certi spot, agli addetti, in giro tra quegli scaffali mastodontici e automatizzati, quasi fossero allegri folletti di Babbo Natale alla vigilia. L’impero di Jeff Bezos si regge su ginocchia traballanti e piedi coperti di vesciche. Nel ricambio vorticoso di ginocchia e piedi e schiene e braccia di un sistema che mastica migliaia di contratti a termine prima di sputarli via, che seduce e abbandona, senza impegnarsi mai sul serio. Alimentato da facili promesse di futuro e di carriera rivolte a persone disposte o rassegnate a tutto, cresciute o rieducate dal mondo post apocalittico nato dal crollo del 2008.

Il tempio del progresso, talmente attuale da essere diventato in un batter d’occhio il simbolo della realtà distopico-pandemica, ha creato il Frankenstein del lavoro, incrociando in laboratorio il peggio con il peggio. Un cocktail imbevibile di avidità, rampatismo da call center – compreso il corollario dei capiarea che ringhiano, esortano e, testuale nella testimonianza che abbiamo raccolto, chiedono un ruggito di fine turno ai lavoratori –, precarietà strutturale dei contratti e paghe minime. Coprendo tutto con l’ombrellino del taylorismo esasperato, che trasforma gli uomini in criceti e chiede loro solo una cosa: correre, per aumentare i ritmi. Non è un caso che il ruolo iconico di queste nuove catene di montaggio sia il runner. E l’utilizzo dell’inglese non riesce ad asciugare la scia di sudore e di fatica fisica, ma anche mentale, che queste persone si lasciano dietro, un minuto dopo l’altro, nelle 8 lunghissime ore di turno.

Basta leggersi le chat di un qualsiasi gruppo di lavoratori Amazon. A testimonianza di quei luoghi e delle loro regole, di certo compatibili con le leggi codificate e con i modernissimi jobs act, ma lontane anni luce dall’idea di lavoro e di umanità difese dai sindacati. Che venerdì (27 novembre), a livello mondiale – la Cgil è in prima fila nel rispondere all’appello di Uniglobal Alliance – , proveranno a colorare di rosso il famigerato Black Friday dell’acquisto forsennato a tutto sconto. Un appuntamento che quest’anno, complici le restrizioni da covid, assumerà probabilmente le dimensioni di un armageddon planetario e mobiliterà schiere di lavoratori riservisti, chiamati e sfruttati dal colosso per l’occasione. Sui diritti non si fanno sconti, gridano i sindacati, conoscendo bene la realtà di quei capannoni.

E allora sentiamolo un racconto sulle vere condizioni di lavoro nei magazzini del colosso dell'e-commerce. “Gli ho contestato, più volte, la mancanza di rotazione nella distribuzione delle mansioni”. A parlare è un ex addetto del magazzino di Rovigo, ultima stella della costellazione Amazon in Italia. Già alla ribalta delle cronache perché alcuni dei neo assunti, venuti dal sud per i primi contratti a termine, non avendo trovato soluzioni alternative, hanno dormito in macchina per settimane pur di accettare il posto. Chi parla, dopo un mese massacrante ha deciso che poteva bastare così e ha rifiutato la proroga del contratto. “Devi camminare più svelto possibile, trascinandoti dietro carrelli carichi di pacchi enormi. Li devi trascinare, non puoi spingerli, per evitare di investire qualcuno. Le gabbie sono pesantissime, le ruote quasi mai ben oliate. Devi tirare come farebbe un mulo. Per tutte e otto le ore di turno, non c’è rotazione. Un giorno, alla quinta ora ho detto alla leader del mio settore che stavo male, ma lei ha risposto che non potevano sostituirmi. Per quella volta lo avrebbero fatto, ma in genere non si possono cambiare le mansioni assegnate. Non ti vogliono vedere mai fermo. Sempre in movimento, sempre sul pezzo, c’era sempre uno dei capi che gridava: vi voglio vedere sempre con un pacco in mano. E quando gli ho detto che non riuscivo più a farlo per stanchezza o dolori, il giorno dopo, puntualmente, mi sono visto riassegnare la stessa identica mansione. Un giorno mi hanno mandato in infermeria, avevo le piaghe ai piedi, facevo il runner. Il medico ha accertato tutto e mi ha messo pomate e cerotti, ma i manager hanno scritto nel rapporto che non era a causa del lavoro, che era un mio problema. E pensare che nei test di assunzione mi avevano sottoposto anche prove su Excel e di inglese”.

Miserie quotidiane di un mondo nel quale, racconta il nostro pentito, la pecca più grave è quella della mancanza di organizzazione. Lì dentro regna la confusione, è il quadro che ne viene fuori dalla testimonianza. Una mancanza mascherata con i vecchi trucchi di un training motivazionale dai risvolti surreali. “Sembrano una setta religiosa. Una volta – saremo state 80 persone – ci hanno riuniti tutti davanti al direttore generale. Un quarto d’ora di stop nel quale centinaia di pacchi si sono accumulati in postazione. Ci hanno fatto raccomandazioni su salute e sicurezza. Alla fine ci hanno esortato a tirare fuori forza e grinta a volontà. Adesso fatemi un bel ruggito, ci ha chiesto il capo. In risposta non è arrivato neanche un miagolio”.

Cinquant'anni dopo la magistrale interpretazione dell’operaio Massa, Gian Maria Volonté, il capannone resta un inferno, ben lontano dal paradiso. Per resistere l’unico modo è evadere. Alla faccia della modernità e del progresso, Cinquant'anni dopo vale ancora la regola di Lulù, un pezzo un culo.  

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