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Contadino e partigiano, sopravvissuto ai fascisti, alla prigione, allo sterminio dei suoi sette figli, Alcide Cervi aveva speso l’intera esistenza a lottare perché il loro sacrificio non fosse stato vano. Le sue esequie a Reggio Emilia saranno un evento nazionale. Oltre 200.000 persone affolleranno le strade e la piazza dell’ultimo saluto. Gli rendono omaggio tutte le grandi personalità della politica e delle istituzioni legate alla storia antifascista, ma anche tanta, tantissima gente comune. Ferruccio Parri lo onora con una toccante orazione funebre.
La storia dei fratelli Cervi è la storia di una esemplare famiglia italiana. Il nonno si chiamava Agostino, e fu uno dei capi della rivolta contro la tassa sul macinato nel 1869. Suo figlio, Alcide, aderirà giovanissimo al Partito popolare prima, alla Resistenza poi. Partigiani saranno anche i 7 figli di Alcide: Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore.
Il 26 luglio 1943, il giorno dopo le dimissioni di Benito Mussolini da capo del governo, la famiglia Cervi offre un pranzo a base di pasta a tutto il paese di Gattatico, per festeggiare.
Di lì a cinque mesi i sette fratelli Cervi perderanno la vita fucilati dai fascisti, esposti alle rappresaglie delle camicie nere probabilmente anche per colpa di quella pastasciutta più potente di un manifesto politico. Arrestati l 25 novembre saranno incarcerati nel carcere politico dei Servi a Reggio Emilia. Rimarranno prigionieri fino alla mattina del 28 dicembre, quando saranno fucilati per rappresaglia.
Il più piccolo, Ettore, aveva 22 anni, il più grande, Gelindo, ne aveva 42. Il papà Alcide, loro compagno di cella fino a quel 28 dicembre 1943, rimarrà prigioniero fino al gennaio dell’anno seguente, quando il carcere verrà bombardato dagli alleati. Tornato a casa, rimarrà ignaro di quello che era accaduto ai suoi figli per tutti i giorni della sua convalescenza.
“Dopo che avevo saputo - dirà - mi venne un grande rimorso. Non avevo capito niente e li avevo salutati con la mano, l’ultima volta, speranzoso che andavano al processo e gliela avrebbero fatta ai fascisti, loro così in gamba e pieni di stratagemmi. E invece andavano a morire. Loro sapevano, ma hanno voluto lasciarmi l’illusione, e mi hanno salutato sorridendo; con quel sorriso mi davano l’ultimo addio”.
Alcide - scriveva Mirco Zanoni - aveva cessato di essere solo Alcide nel 1945, quando era arrivato papà Cervi. Forse nessuno gli ha mai chiesto che ne pensasse di questo cambio d’anagrafe pubblico. Ma lo viveva con la stessa dignità e la consapevolezza che gli consentiva di stare eretto davanti al dolore. La vita di papà Cervi era iniziata a 70 anni. Quando nell’ottobre del ‘45 la storia della sua famiglia varcò per sempre la soglia dei Campirossi per diventare patrimonio pubblico. Fu un altro funerale, a far nascere papà Cervi: la consegna delle spoglie dei suoi sette figli alla loro terra, a Campegine. Nel luogo dove sono ora, a fianco del padre, della madre, delle mogli. Papà Cervi nasce vecchio, con il cappello e i baffi grigi, con le rughe di vita e di fatica che ne fanno un’icona perfetta per l’Italia che cerca specchi non infranti, tra le macerie della ricostruzione. I nuovi italiani cercano luoghi, bio- grafie, coscienze in cui trovare se stessi. Perché la politica non basta, e nemmeno l’ideologia e la fede. Serve l’anima, per ricostruire. Serve la verità della fatica e dell’umiltà, che solo dalla terra può venire. E la storia di Alcide, Genoveffa, dei suoi figli, delle loro donne e dei loro bambini, è una storia di terra, orizzontale come la pianura dove nasce e resiste, fino alla fine. (…) Papà Cervi nei suoi 25 anni di vita è stato vestito di molte bandiere, alcune cucite apposta per lui. È stato avvolto di molto rosso, di molte parole. Ha portato tutto con la stessa dignità di ogni altra cosa. Come le sette medaglie sul petto dei suoi figli; come il “giubèt” con cui riceveva, a ogni ora, delegazioni ufficiali allo stesso modo delle persone qualsiasi che si fermavano a Casa Cervi.
Per il suo impegno partigiano e per quello dei suoi figli a papà Alcide sarà consegnata la medaglia d’oro realizzata dallo scultore Marino Mazzacurati, che da un lato reca la sua effigie e dall’altro un tronco di quercia tra i cui rami spezzati brillano le sette stelle dell’Orsa.
“Mi hanno sempre detto - dirà nell’occasione della consegna - ‘Tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami, e quelli sono stati falciati, e la quercia non è morta’. La figura è bella e qualche volta piango. Ma guardate il seme, perché la quercia morirà, e non sarà buona nemmeno per il fuoco. Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme. Il nostro seme è l’ideale nella testa dell’uomo”.