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Nell’estate del 1992 l’Italia precipita nel pieno di una crisi drammatica. In piena emergenza economica e politica, il sindacato darà un contributo decisivo per l’uscita del paese dalla crisi, collaborando con i Governi Amato e Ciampi, con i quali firmerà due accordi fondamentali.
Il primo, siglato il 31 luglio 1992, poneva fine al meccanismo della scala mobile e prevedeva misure urgenti in tema di occupazione; con il secondo, firmato il 23 luglio 1993, dopo la ratifica dei lavoratori, si stabilivano per la prima volta nella storia italiana regole certe nel sistema di relazioni industriali.
Bruno Trentin si piega con molta inquietudine a firmare l’accordo del 1992, un accordo di cui non è per niente convinto. Si dimetterà da segretario lo stesso 31 luglio (le sue dimissioni verranno respinte dal Direttivo confederale).
“Tutto si è compiuto in questo giorno e nella notte - scrive sul suo diario - Giovedì, per ventiquattro ore un negoziato estenuante e insidioso con il Governo che fa praticamente da portavoce e da mediatore della Confindustria. Assalito a colpi di insulti da Abete e dai suoi tirapiedi, Amato si aggrappa disperatamente a loro per trovare una via d’uscita che salvi la sua immagine e il negoziato nel quale si è avventurato, fidandosi dell’arrendevolezza del sindacato e del corrispondente bisogno d’immagine dei burocrati della Cisl e della Uil. Il fronte sindacale si sgretola rapidamente. (…) Mi sono trovato assediato: al di là delle intenzioni e del peso effettivo della minaccia di crisi di Governo che Amato ha evocato, era certo che un fallimento del suo tentativo avrebbe avuto, a quel punto, degli effetti incalcolabili sulla situazione finanziaria del Paese e sul piano internazionale. La divisione fra i sindacati e nella Cgil avrebbe dato un colpo finale al potere contrattuale del sindacato come soggetto politico. Salvare la Cgil e le possibilità future di una iniziativa unitaria del sindacato; impedire che fosse imputata ad una parte della Cgil la responsabilità di un ulteriore aggravamento della crisi economica, per emarginarla sul piano politico mi imponevano di firmare l’accordo e di lasciare quindi libera la Cgil e i suoi organismi dirigenti di convalidare o meno quella decisione. E spero ancora, per le ragioni politiche che mi hanno indotto a quel gesto che lo faccia e tragga da questo la forza per ribaltare a settembre le regole del gioco fuori da ogni ricatto. Dall’altra parte, ero ben cosciente che, ciò facendo, disattendevo il mandato ricevuto dalla Direzione della Cgil, quel mandato che avevo sollecitato con tanta insistenza, contrapponendomi alla tesi dei soliti rentiers della politica del sempre peggio, che invocava l’abbandono del negoziato. Non potevo annunciare alla Segreteria della Cgil la mia intenzione di firmare, senza preannunciare le mie dimissioni. Ciò che ho fatto”.
“Sono passati 15 giorni dal venerdì 31 luglio - torna a scrivere da San Candido il 13 agosto - e sono stati 15 giorni di inferno. In parte della stampa, nel Pds e nel sindacato: molto rumore e tanti opportunismi. Ma soprattutto un inferno dentro di me.
Resto convinto dell’ineluttabilità della contraddizione nella quale mi sono trovato e quindi dell’ineluttabilità della doppia decisione che ho assunto. Ma sento crescere in me l’insopportabilità della contraddizione e la miseria dei suoi due poli”
“Ho firmato - diceva a Bruno Ugolini qualche giorno prima (l’Unità, 6 agosto) - quel brutto protocollo per non aggiungere sfascio allo sfascio, per responsabilità verso il Paese e i lavoratori. C’era il rischio di una crisi di governo con pesanti ripercussioni economiche e finanziarie”.
“Ho letto - affermava - che si sarebbe trattato di uno stato di costrizione personale nel quale mi sarei trovato, come sottoposto a ricatti addirittura di singole persone. E così sarei stato costretto a firmare quell’accordo. E un quadro assolutamente ridicolo e anche mortificante per un episodio che ha avuto ben altro spessore. lo non sono stato sottoposto a nessun ricatto personale. Ho dovuto prendere in considerazione, come dirigente della Cgil, uno stato di fatto. Tale stato di fatto mi ha indotto ad assumere, appunto, una decisione che ho ritenuto conforme al senso di responsabilità che richiedeva la situazione venutasi a creare (…) Non sono pentito - lo ribadisco- né della firma, ne delle dimissioni. Tanto è vero che ho comunicato queste dimissioni alla Segreteria della Cgil presente a palazzo Chigi, prima di apporre la firma al protocollo presentato dal governo Amato. E le ho presentate prima proprio perché ritenevo che la firma, pur contravvenendo in alcuni punti al mandato ricevuto, non aveva in quel momento, alcuna alternativa. Questo ha voluto dire «decidere». Mi sono fatto carico, in un momento in cui solo poche persone potevano assolvere a questo onere, degli interessi generali che erano coinvolti, nell'ipotesi di una rottura tra sindacati e governo (…) Non le ho date per scherzo. Intendo, prima di discutere qualsiasi altra cosa, spiegare, al Direttivo della Cgil, le ragioni che mi hanno indotto a queste dimissioni. E che sono inseparabili dalle ragioni che mi hanno portato alla firma del protocollo, pur giudicandolo cosi negativamente”.
“Che mese terribile - torna a scrivere il 10 ottobre - Credo davvero si tratti del più triste e angoscioso della mia vita. Dopo un Comitato Direttivo durato tre giorni alla fine del quale mi sono sentito costretto ad accettare una rielezione - con tutti i miei dubbi che, del resto, sono andati crescendo in queste settimane - è ricominciata la via crucis di Luglio. Certo con molte differenze: non mi sento più costretto come ero prima della firma dell’accordo del 31 luglio e si è andato ristabilendo un rapporto più chiaro con gran parte del quadro attivo e dei militanti della Cgil (…) A Firenze il 22, sono stato scelto per inaugurare questa nuova stagione e a parte l’aggressione che ho dovuto subire ho dovuto rivedere delle teste rotte e delle facce insanguinate di operai che difendevano il loro sindacato. (…) Restano le ferite, la scoperta che con tante persone che stimavo, al di là dei dissensi, un rapporto di reciproco rispetto, per non parlar di amicizia è finito per sempre; la consapevolezza di una frattura non tanto politica quanto morale, che coinvolge molti che hanno contato per tutta una parte della mia esistenza. Conosco l’amarezza, il dolore, il sentimento di solitudine e il desiderio di dissociarmi da un mondo che non mi appartiene, da una rissa che mi ripugna, da un intreccio di convivenze insopportabili e ipocrite e di compromessi con interlocutori dai quali non mi attendo più nulla, se non slealtà e doppiezza. Facile cadere nel vittimismo. Spero di scansare questo pericolo. Ma evitare la disperazione, questo è molto più difficile. Molti attestati di solidarietà. Alcuni rituali. Altri mi hanno confortato davvero e mi hanno ridato voglia di continuare, almeno per qualche giorno. Ma fra questi un messaggio di Pietro Ingrao e poi un abbraccio alla manifestazione dei Pensionati, il 26 settembre, è stato il fatto più importante della mia storia affettiva di questi mesi. Quella sera ho pianto disperatamente, come non mi era mai successo. E nella gioia che provavo scoprivo anche quanto grande era la mia disperazione”.