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Il 3 febbraio 1991, con 807 voti favorevoli, 75 contrari e 49 astenuti, il Pci, fondato il 21 gennaio 1921, decreta il proprio scioglimento al termine di un percorso avviato nel Comitato centrale del 20 novembre 1989.
Il Congresso di Rimini è l’atto conclusivo di un dibattito aspro e intenso che prende il via il 12 novembre del 1989, quando alla Bolognina, quartiere popolare di Bologna, l’allora segretario Achille Occhetto, annunciava il cambio di denominazione del Partito. Il XIX e penultimo Congresso del Pci teneva a Bologna dal 7 all’11 marzo 1990.
Le tre mozioni discusse
Quella redatta dal segretario Achille Occhetto che propone di aprire una fase costituente per un partito nuovo, progressista e riformatore nel solco dell’Internazionale Socialista; una seconda, firmata da Alessandro Natta e Pietro Ingrao, che si opporrà ad una modifica del nome, del simbolo e della tradizione; una terza proposta da Armando Cossutta, che riprenderà pur con qualche differenza i temi ed i concetti della precedente.
La mozione di Occhetto risulterà vincente con il 67% delle preferenze, contro il 30% raccolto dalla mozione di Natta e Ingrao ed il 3% di quella cossuttiana. Achille Occhetto viene riconfermato segretario e piange. L’anno dopo, all’ultimo Congresso - straordinario - del Partito, vincerà ancora e con un discorso di 17 minuti chiuderà l’ultimo capitolo della storia del più grande partito comunista dell’Europa occidentale.
“Cari compagni e care compagne, in molti sentono che è giunta in qualche modo l’ora di cambiare - dirà - Non si tratterà solo di cambiare targhe sulle porte delle sezioni, occorrerà andare a una grande opera di conquista e di proselitismo (…) Oggi è un momento importante della nostra vicenda collettiva e sarà un momento memorabile della storia politica d’Italia (…) Per costruire, con il compito, con l’orgoglio che vi guida, il futuro dell’Italia”.
L'intervento di Bruno Trentin
Nel suo intervento dalla tribuna affermava il segretario generale della Cgil, Bruno Trentin, il 2 febbraio precedente:
Credo per questa ragione, che il limite più grande che abbiamo scontato in questi anni - anche nel corso della vertenza dei metalmeccanici - è stato la rinuncia ad investire i lavoratori, in tutte le fasi delle vertenze contrattuali (e non solo a cose fatte) delle scelte anche dolorose che devono sempre essere compiute, quando un movimento riformatore e un soggetto politico autonomo, quale e il sindacato, non intende delegare ad altri (si tratti delle forze politiche, dello Stato o, nel peggiore dei casi, del padronato) la selezione fra le proprie richieste, o la questione delle ricadute economiche, politiche e sociali delle sue rivendicazioni e delle sue conquiste. La solidarietà di classe fra diversi, l’affermazione del primato dei diritti e delle libertà di tutti, in tutti i luoghi di lavoro, comportano una democrazia adulta nel sindacato e nei rapporti fra sindacati e lavoratori. Una democrazia adulta capace, cioè, di misurarsi con i costi e i vincoli della solidarietà; con i costi e i vincoli della lotta e dei rapporti di forza, con i costi e i vincoli di un progetto fondato su scelte prioritarie, non fungibili con altre, sull’affermazione di diritti nuovi, non scambiabili e non monetizzabili. La grande battaglia di democrazia che si apre nel movimento operaio è questa, nel momento in cui si assume la 'padronanza dei lavoratori sulla loro attività' e la conquista di nuovi diritti di nuovi poteri, come la frontiera del conflitto sociale per il governo dei processi di trasformazione, di ristrutturazione e di riconversione ecologica. Ed è qui che si compie la rottura con un vecchio rapporto sostanzialmente autoritario fra un partito che detiene il primato della politica e un sindacato corporativo e subalterno, magari forte, qualche volta, di un consenso plebiscitario, nella raccolta indiscriminata della protesta e del malcontento, ma soltanto capace di delegare ad altri le scelte vere; quelle cioè che sono destinate ad incidere sulla condizione quotidiana di lavoro, di vita, di libertà, di ogni singolo lavoratore. Per questa ragione, ritengo che il riconoscimento del sindacato come soggetto politico autonomo e la battaglia necessaria per garantire una sua autonomia culturale e politica - che dia legittimità ad una sua autentica democrazia decisionale - non sono questioni marginali nella costruzione di una strategia dell’alternativa del Partito democratico della sinistra, che intenda fondarsi sul primato dei programmi rispetto ai vecchi schieramenti. E anche per questa ragione mi sembra, davvero, che senza un progetto e un’azione decisa per una riforma istituzionale della società civile, tale da riconciliarla con uno Stato che vogliamo trasformare, anche la nostra proposta di riforma elettorale e di regionalizzazione dello Stato sono destinate a rimanere nell’ambito angusto di un confronto (se non di una rissa come sembra volere il Psi) fra partiti e gruppi di potere.
“È finito il brutto congresso di transizione dal Pci al Pds - scriverà sul suo diario il 10 febbraio successivo - Povero e trasformistico nella sua introduzione e nelle sue conclusioni. Un riflesso puntuale dell’impoverimento culturale e persino della regressione che contrassegna questa fase politica della sinistra, fra fondamentalismo mal digerito e pragmatismo inseparabile dal trasformismo e da una logica di pura conservazione del consenso potere. La triste vicenda delle faide dorotee che hanno portato all’insuccesso di Occhetto nella prima votazione per la sua elezione a segretario del Pds è stato un epilogo anche troppo coerente con questa degenerazione della lotta politica che ha pervaso tutto il congresso”.
Parole sulle quali, mai come oggi, sarebbe opportuno riflettere.