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Il Congresso di Rimini è l’atto conclusivo di un dibattito aspro e intenso che prende il via il 12 novembre del 1989, quando alla Bolognina, quartiere popolare di Bologna, l’allora segretario Achille Occhetto, annunciava il cambio di denominazione del Partito. Il segretario parlerà solo sette minuti. Doveva essere un semplice discorso di circostanza per le celebrazioni del quarantacinquesimo anniversario di una battaglia della Resistenza, sarà invece un momento storico che segnerà il passaggio dal Pci al Pds.
“Era il 9 novembre 1989 ed ero a Bruxelles per incontrare il leader laburista Neil Kinnock - raccontava Occhetto in un’intervista a Repubblica - Rimanemmo ipnotizzati di fronte alle immagini televisive che giungevano da Berlino. Stavano picconando il Muro. Dissi subito ai giornalisti: Qui non crolla soltanto il comunismo, ma tutto il Novecento”. Il 20 novembre successivo si riunisce il Comitato Centrale del Partito.
“L’emozione rispetto alla sorte del nome 'comunista' - scriveva quella sera Pietro Ingrao - non è un lamento di “reduci”. È un grumo di “vissuto”, di esperienza sofferta di milioni di italiani che intorno a questo nome hanno combattuto non solo battaglie di libertà - che sono state condotte anche da altri che io rispetto - ma hanno visto la tutela dei più deboli, come patrimonio sepolto da valorizzare”.
“Io non mi vergogno di questo nome - dirà Pajetta - né della nostra storia, e non lo cambio per quello che hanno fatto quelli là. Se cambiamo nome, cosa facciamo, il terzo partito socialista? Io dico soltanto che quando Longo mi mandò da Parri per costituire il comando del Cln, né Parri, né altri mi chiesero di cambiare nome, ma soltanto di combattere insieme”. Il XIX e penultimo Congresso del Pci si tiene a Bologna dal 7 all’11 marzo 1990.
Tre le mozioni discusse: quella redatta dal segretario Achille Occhetto che propone di aprire una fase costituente per un partito nuovo, progressista e riformatore nel solco dell’Internazionale Socialista; una seconda, firmata da Alessandro Natta e Pietro Ingrao, che si opporrà a una modifica del nome, del simbolo e della tradizione; una terza proposta da Armando Cossutta, che riprenderà pur con qualche differenza i temi e i concetti della precedente. La mozione di Occhetto risulterà vincente con il 67% delle preferenze, contro il 30% raccolto dalla mozione di Natta e Ingrao ed il 3% di quella cossuttiana. Achille Occhetto viene riconfermato segretario e piange.
L’anno dopo, all’ultimo Congresso - straordinario - del Partito, vincerà ancora e con un discorso di 17 minuti chiuderà l’ultimo capitolo della storia del più grande partito comunista dell’Europa occidentale.
“Cari compagni e care compagne, in molti sentono che è giunta in qualche modo l’ora di cambiare - dirà - Non si tratterà solo di cambiare targhe sulle porte delle sezioni, occorrerà andare a una grande opera di conquista e di proselitismo (…) Oggi è un momento importante della nostra vicenda collettiva e sarà un momento memorabile della storia politica d’Italia (…) Per costruire, con il compito, con l’orgoglio che vi guida, il futuro dell’Italia”.
Non tutti, però, saranno d’accordo e al Congresso saranno presentate tre mozioni: la mozione di Occhetto, “Per il Partito democratico della sinistra”; la mozione “Per un moderno partito antagonista e riformatore” proposta, tra gli altri, da Antonio Bassolino, Alberto Asor Rosa e Mario Tronti; infine quella della “Rifondazione comunista” sottoscritta, tra gli altri, da Pietro Ingrao, Lucio Magri, Alessandro Natta, Armando Cossutta e Luciana Castellina.
“Poiché io giro molto per l’Europa - raccontava proprio lei qualche anno fa - mi capita di sentirmi ancora chiedere: “Ma perché fu sciolto il Pci?”. È una domanda che non proviene solo dalla sinistra cosiddetta radicale, ma persino dai socialdemocratici, a molti dei quali la cosa continua ad apparire una follia. Non so se in questo trentennale dell’evento Achille Occhetto si interroghi su quella sciagurata decisione di cui è stato il principale fautore, e con lui tutti coloro che l’hanno condivisa. Sarebbe una riflessione autocritica tutt’ora necessaria, anzi - a fronte del pessimo stato attuale della sinistra italiana - oggi tanto più indispensabile.
Non perché sarebbe stato giusto conservare quel partito com’era alla fine degli anni ’80: bisognava cambiarlo nel profondo, e figuratevi se una come me che dal Pci fu radiata nel ’69 per via della vicenda del Manifesto, potrebbe pensare il contrario. Il punto è un altro: cambiare il nome del partito (che equivaleva a scioglierlo, perché farlo significava delegittimarne il passato) ha inferto un colpo durissimo a centinaia di migliaia di compagni, a un corpo certo ferito dalle pessime scelte compiute negli ultimi tempi e indubbiamente anche dall’esito tristissimo dell’esperienza sovietica, e che però era ancora vivo e militante. Dovrebbe ben far riflettere il fatto che fra il primo congresso, quello dell’’89 a Bologna che lanciò la proposta, e il secondo, a Rimini nel gennaio ’91, che la ratificò, ben 400.000 compagni abbandonarono ogni forma di attività politica: non solo non si iscrissero al nuovo partito partorito, il Pds, ma nemmeno a Rifondazione comunista. Sono semplicemente andati a casa, disillusi, amareggiati, come qualcuno cui è stata spezzata la spina dorsale”.