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A Rimini, tra il 31 gennaio e il 4 febbraio 1991, in occasione del suo XX Congresso, il Partito comunista italiano viene ufficialmente sciolto. Il Congresso di Rimini è l’atto conclusivo di un dibattito aspro e intenso che prende il via il 12 novembre del 1989, quando alla Bolognina, quartiere popolare di Bologna, l’allora segretario Achille Occhetto, annunciava il cambio di denominazione del Partito.
Nel suo intervento dalla tribuna di un Congresso passato alla storia diceva Bruno Trentin il 2 febbraio 1989:
Nella relazione introduttiva di questo congresso, come nella bozza programmatica elaborata a suo tempo dal compagno Bassolino, è stata posta come questione centrale del conflitto sociale, della lotta di classe nell’epoca contemporanea e come cardine di una rifondazione democratica dello Stato, 'la conquista, all’interno dell’impresa, di un sistema di diritti individuali e collettivi che conduca alla costruzione di una moderna democrazia economica e industriale'. E Occhetto ha parlato della 'padronanza dei lavoratori sulla loro attività' - e, quindi, sulle loro condizioni di lavoro, sulla struttura della loro retribuzione, sulla loro salute, sul loro tempo di lavoro e di vita e suoi loro percorsi culturali e professionali - come di una nuova frontiera della lotta sociale.
In realtà questa questione cruciale che misura le sue possibilità di soluzione, per quanto graduali, nella conquista di un potere di contrattazione collettiva, di controllo e di codeterminazione nei luoghi di lavoro, è da tempo il terreno sul quale si decide, in Italia, non solo del potere contrattuale, ma della stessa natura e della rappresentatività del sindacato, come ha dimostrato la straordinaria lotta dei metalmeccanici per battere il disegno restauratore di una parte del padronato. Attenti compagni, nella gara fra chi si appropria della critica dei numerosi errori che sono stati indubbiamente commessi nel corso di questa battaglia, a oscurare il grande valore di questo conflitto e del suo esito! Attenti a non lavorare per il re di Prussia, trasformando una necessaria riflessione critica sulle lotte sociali in una meschina lotta interna al partito o al sindacato.
Noi dobbiamo essere consapevoli, in ogni caso, che vincere questa grande battaglia per la democrazia nei luoghi di lavoro, nell’impresa, per lo meno tenere aperte le strade per nuovi progressi futuri in questa direzione, pone al movimento sindacale e alle stesse forze politiche della sinistra, problemi inediti, di capacità progettuale, di selezione degli obiettivi, e di organizzazione di una partecipazione consapevole dei lavoratori ai processi decisionali, prima di tutto all’interno del sindacato. Molti errori sono stati commessi, come ho detto, in questi mesi e in questi anni, nell’illusione che una battaglia di questa portata potesse essere vinta da un tipo di sindacato che decideva sulla base del mandato fiduciario e non verificato di una minoranza di lavoratori tesserati, ricorrendo magari, a seconda delle opportunità, a verifiche referendarie, nelle quali i lavoratori restano però sostanzialmente privi di una capacità di decisione, informata e consapevole, e della possibilità di scegliere realmente fra opzioni politiche e rivendicative poste in alternativa, in modo trasparente.
Credo, per questa ragione, che il limite più grande che abbiamo scontato in questi anni - anche nel corso della vertenza dei metalmeccanici - è stato la rinuncia ad investire i lavoratori, in tutte le fasi delle vertenze contrattuali (e non solo a cose fatte) delle scelte anche dolorose che devono sempre essere compiute, quando un movimento riformatore e un soggetto politico autonomo, quale è il sindacato, non intende delegare ad altri (si tratti delle forze politiche, dello Stato o, nel peggiore dei casi, del padronato) la selezione fra le proprie richieste, o la questione delle ricadute economiche, politiche e sociali delle sue rivendicazioni e delle sue conquiste. La solidarietà di classe fra diversi, l’affermazione del primato dei diritti e delle libertà di tutti, in tutti i luoghi di lavoro, comportano una democrazia adulta nel sindacato e nei rapporti fra sindacati e lavoratori. Una democrazia adulta capace, cioè, di misurarsi con i costi e i vincoli della solidarietà; con i costi e i vincoli della lotta e dei rapporti di forza, con i costi e i vincoli di un progetto fondato su scelte prioritarie, non fungibili con altre, sull’affermazione di diritti nuovi, non scambiabili e non monetizzabili.
La grande battaglia di democrazia che si apre nel movimento operaio è questa, nel momento in cui si assume la 'padronanza dei lavoratori sulla loro attività' e la conquista di nuovi diritti di nuovi poteri, come la frontiera del conflitto sociale per il governo dei processi di trasformazione, di ristrutturazione e di riconversione ecologica. Ed è qui che si compie la rottura con un vecchio rapporto sostanzialmente autoritario fra un partito che detiene il primato della politica e un sindacato corporativo e subalterno, magari forte, qualche volta, di un consenso plebiscitario, nella raccolta indiscriminata della protesta e del malcontento, ma soltanto capace di delegare ad altri le scelte vere; quelle cioè che sono destinate ad incidere sulla condizione quotidiana di lavoro, di vita, di libertà, di ogni singolo lavoratore.
Per questa ragione, ritengo che il riconoscimento del sindacato come soggetto politico autonomo e la battaglia necessaria per garantire una sua autonomia culturale e politica - che dia legittimità ad una sua autentica democrazia decisionale - non sono questioni marginali nella costruzione di una strategia dell’alternativa del Partito democratico della sinistra, che intenda fondarsi sul primato dei programmi rispetto ai vecchi schieramenti. E anche per questa ragione mi sembra, davvero, che senza un progetto e un’azione decisa per una riforma istituzionale della società civile, tale da riconciliarla con uno Stato che vogliamo trasformare, anche la nostra proposta di riforma elettorale e di regionalizzazione dello Stato sono destinate a rimanere nell’ambito angusto di un confronto (se non di una rissa come sembra volere il Psi) fra partiti e gruppi di potere.
Una nuova legislazione dei diritti individuali e collettivi. La riforma della pubblica amministrazione e dello Stato sociale che parta dalla rottura dei ghetti garantiti i quali isolano i lavoratori pubblici dal resto del mondo del lavoro, conferendo nuovi spazi decentrati di controllo e di autogoverno ai lavoratori e agli utenti. La conquista di nuovi spazi di democrazia, nello Stato, nel mercato del lavoro nelle amministrazioni locali, in tutte le regioni meridionali, quale condizione prima della sconfitta della criminalità organizzata e dello stesso sviluppo di queste regioni. Una nuova legislazione che definisca le regole della rappresentanza e della democrazia di mandato delle organizzazioni sindacali. Questi mi sembrano alcuni grandi fronti di iniziativa e di lotta capaci di dare una trasparente legittimazione sociale, alla nostra battaglia per la democrazia; alla affermazione, con la nascita del Partito democratico della sinistra, di una nuova concezione della politica che ridia alla donne e agli uomini una fetta di potere e uno spazio di decisione, cominciando a modificare qui e ora - e non in un domani luminoso - la divisione fra governanti e governati; nell’impresa come nello Stato.
Se in Italia la fine del comunismo reale induce il Pci a mutare nome, simbolo e strategia, dando vita al progetto del Partito democratico della sinistra (Pds), destinato a subire la scissione “a sinistra” di Rifondazione comunista, anche la Cgil vive un delicato momento di transizione dagli esiti però profondamente diversi.
Già alla Conferenza di programma di Chianciano (aprile 1989) il gruppo dirigente aveva lanciato le due parole d’ordine, diritti e programma, intorno alle quali costruire la nuova politica rivendicativa, avviando inoltre una discussione franca sui temi della politica dei redditi, della concertazione, della riforma del sistema contrattuale, dell’Europa. I cambiamenti organizzativi non saranno da meno: tra la Conferenza di organizzazione di Firenze (novembre 1989) e il congresso di Rimini, le tre componenti storiche (comunista, socialista e la terza componente dei cosiddetti “senza partito”) decideranno di sciogliersi, inaugurando una nuova fase nella storia della Confederazione.