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Dei 975 positivi al Covid-19 registrati all’8 aprile in Sardegna, 654 appartengono al territorio di Sassari. Un’emergenza dentro l‘emergenza che ha messo a nudo, prima di tutto, l’inadeguatezza delle strutture sanitarie. Il momento è complicato, ma se la macchina organizzativa fosse stata solida probabilmente il nord Sardegna avrebbe sofferto meno. Esprime grande preoccupazione per l’evolversi della situazione la Camera del lavoro di Sassari, che traccia uno spaccato di quanto accade in quel mondo che a casa non ci può restare, perché ogni giorno, con responsabilità, continua a lavorare. Ma accende anche una luce sui tanti lavoratori in stand-by che aspettano di ricevere, senza alcuna certezza dei tempi, le misure di sostegno al reddito previste dal decreto nazionale Cura Italia e dall’Intesa quadro regionale.
Mai come oggi sembrano compromessi diritti fondamentali, la salute e il lavoro. Tuttavia le corsie degli ospedali offrono una prospettiva ancor più pericolosa: “Anche in condizioni di normalità ci misuriamo spesso sul binomio, per noi inscindibile, tra lavoro e sicurezza – scrive la Cgil di Sassari –, ma nelle nostre strutture sanitarie si consuma un altro conflitto, tra chi ha diritto a essere curato e chi ha diritto a non ammalarsi”. Perciò occorre fare attenzione, “non può passare l'idea che il secondo valga meno, che in assenza dei dispositivi di sicurezza, se il diritto alle cure è primario, si debba comunque eseguire l’attività”. Equivarrebbe al fatalismo di chi, alla fine, si lascia sopraffare dall’ineluttabilità degli eventi.
Anche fuori dagli ospedali il mondo del lavoro subisce il peso dell’emergenza: sia quando garantisce lo svolgimento delle attività essenziali, sia quando, suo malgrado, deve fermarsi, vedendosi ridotto o azzerato lo stipendio. “Negli ospedali e nelle case di riposo lavorano gli addetti alle pulizie, spesso donne, mogli e madri di famiglia che vedono rimpallarsi le responsabilità dei disagi dalle ditte d’appalto alle committenti”. Le mascherine, quando ci sono, devono essere indossate correttamente: “Non è scontato che tutti lo sappiano fare, soprattutto chi non è avvezzo all’utilizzo”. Ci sono poi “i lavoratori della logistica, i corrieri e i tecnici delle telecomunicazioni, che entrano nelle case e negli uffici e non sempre sono dotati delle protezioni indispensabili”. E ancora, i dipendenti diretti e delle imprese degli impianti dello stabilimento di Porto Torres e della centrale di Fiume Santo, che garantiscono la fornitura di materie prime e la produzione di energia elettrica. Si continua a lavorare nei servizi di igiene ambientale, nei call center, nei supermercati così come nelle banche e negli uffici postali.
Una pluralità di persone, storie e professionalità che si muove ogni mattina per consentire a tutti gli altri di restare a casa. Il rischio si cela ovunque, ma è evidente che ci sono luoghi e lavori dove è più elevato, e che la prima battaglia sulla quale è impegnato il sindacato in questi giorni è quella per il rispetto delle norme sulla salute e la sicurezza. Insieme a questo c’è l’attenzione per quella parte di mondo del lavoro che si è dovuto fermare. Le richieste di ammortizzatori sociali sono state nel Sassarese oltre 700 nei primi venti giorni dal decreto Cura Italia, 7 mila i lavoratori coinvolti. Si tratta per la maggior parte di attività del commercio e terziario, poi edilizia e artigianato, piccole imprese metalmeccaniche, cooperative sociali. “Le aziende del territorio sono molto piccole e pertanto fragili – spiega la Cgil di Sassari –, lo si vede dalle comunicazioni che ogni giorno arrivano via Pec da realtà imprenditoriali dove convivono al massimo quindici persone, che magari svolgono la medesima attività con due, tre, a volte persino quattro contratti diversi”. Un mondo frammentato che nell’emergenza mostra ancora di più la sua debolezza: “Siamo in contatto costante con aziende e consulenti che hanno poca dimestichezza con le procedure, diamo una mano con l’obiettivo comune di avviare le pratiche in modo corretto e ci dispiace registrare segnalazioni di sedicenti organizzazioni sindacali che chiedono soldi alle aziende per sottoscrivere gli accordi, e patronati che li chiedono ai lavoratori per inoltrare le pratiche”.
Un comportamento scorretto e indecente sempre, ancor di più nell’emergenza attuale, che rende le persone più vulnerabili per la necessità urgente di un sostegno economico. Anzi, urgentissimo. Eppure i tempi di liquidazione degli assegni devono fare i conti con la complessità delle procedure che, salvo la riduzione del margine per il confronto sindacale da quindici a tre giorni, sono rimaste le stesse. Se in condizioni normali, dall'invio dei dati alla liquidazione degli assegni trascorrono anche 40 giorni, come si può promettere che già il 15 aprile parte dei lavoratori in cigo o fis avrà una risposta? È un azzardo: “Il numero di persone che lavora su quelle pratiche è lo stesso di prima, noi siamo sempre gli stessi, e pure il portale dell’Inps che, non a caso, è perennemente in crash”.