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Alle 17 del 24 luglio 1943 i 28 membri del Gran consiglio del fascismo, che non si riuniscono dal 1939, si incontrano a Palazzo Venezia per votare l’ordine del giorno che porrà fine al ventennio fascista, mettendo in moto il meccanismo che avrebbe portato all’uscita dell'Italia dalla Seconda guerra mondiale e all'inizio della Resistenza.
“L’ingresso del Duce nella sala del Gran Consiglio - scriveva l’economista Alberto De Stefani - è stato silenzioso; un’accoglienza di attesa; pareva non vedesse nessuno; rifletteva e dava l’impressione di chi si appresta ad ascoltare; la sua espressione era passiva, senza sintomi di reazione come quella di chi deve accettare un avvenimento e non vuole sottrarvisi”. Non esistono resoconti stenografici ufficiali della riunione con cui il Gran Consiglio del fascismo mise fine al ventennio ma esistono quelli dei testimoni, tra cui lo stesso Mussolini, i quali racconteranno - non sempre in maniera concorde - gli avvenimenti di quella lunga, storica notte.
“La drammatica riunione dura dieci ore - annotava Dino Grandi nei propri ricordi autobiografici - Ciano si alza in piedi con una proposta assurda, quella di fondere insieme l’ordine del giorno Grandi con l’ordine del giorno Scorza. La proposta cade fortunatamente nel vuoto. È a questo punto che il duce, giudicando di avere in pugno la maggioranza dell'assemblea, decide di mettere ai voti il mio ordine del giorno. La deliberazione da me proposta, quale surrogato di un voto parlamentare è approvata a grande maggioranza: 19 contro cinque. Con voce stupefatta il segretario del partito comunica all’assemblea i risultati della votazione. Dopo un attimo di silenzio il duce si alza e si avvia a passo lento verso l’uscita. Ferma con un gesto del braccio il segretario del partito, mentre questi si accinge a dare il consueto saluto al duce. Sulla soglia della sala del Mappamondo il duce si volge verso l’assemblea e dice: ‘Il Gran Consiglio stasera ha aperto la crisi del regime’”.
Per tutta la giornata del 25 luglio verrà mantenuto uno strettissimo riserbo su quanto accaduto; solo alle 22:45 sarà data dalla radio la notizia della sostituzione del capo del governo. “Sua maestà il re e imperatore - verrà ufficialmente comunicato - ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo, primo ministro, segretario di Stato di sua eccellenza il cavaliere Benito Mussolini, ed ha nominato capo del governo, primo ministro, segretario di Stato, il cavaliere, maresciallo d’Italia, Pietro Badoglio”. Meno di due mesi più tardi, il 3 settembre, verrà stipulato l’armistizio con gli alleati divulgato cinque giorni dopo.
Le parole pronunciate con voce ferma dal maresciallo Badoglio alle 19 e 42 dell’8 settembre 1943 dalla sede dell’Eiar, l’allora radio di Stato, sono ormai consegnate ai libri di storia: “Il governo italiano riconosciuta l’impossibilità di continuare un’impari lotta contro le forze soverchianti avversarie e nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto l’armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze anglo-americane. La richiesta è stata accettata. Conseguentemente, ogni atto di ostilità da parte delle forze italiane contro gli eserciti alleati deve cessare in ogni luogo. Le forze italiane però reagiranno agli attacchi di qualsiasi altra provenienza”.
Comincia per l’Italia la Resistenza al nazifascismo, una storia fatta di combattimenti, rappresaglie, repressioni, silenzi e grandi eroismi. Una storia fatta da uomini e donne ai e alle quali tutti noi dobbiamo molto.
“L’8 mio padre era a casa dei suoceri - annotava Bruno Trentin sul proprio journal de guerre - mio fratello a casa di amici. Io passeggiavo per caso sulla piazza principale di Treviso. Si era radunata una folla confusa e incerta. Corrono delle voci: la Pace… la Pace!… Voci, ma nessuno ne sa niente. Tutto a un tratto, un uomo compare a un balcone e urla: ‘Italiani! Una grande notizia… Armistizio!… la guerra del fascismo è finita!… Vendetta contro quelli che vi ci hanno trascinato!’. La gente grida di gioia, i soldati si abbracciano, si corre per le strade, si canta. Io, tremante, tesissimo, mi precipito attraverso il dedalo delle viuzze sporche della città bassa e in cinque minuti sono a casa di nonno. Irrompo nella stanza in cui mio padre sta discutendo con alcuni amici; grido: ‘Badoglio ha firmato l’armistizio!’. Mio padre si alza in piedi, grave, senza inutili esplosioni di gioia; si guardano tutti tra loro… È la guerra che comincia!…. La guerra vera per l’Italia vera. Da quel giorno, le nostre volontà: quella di mio padre, di mio fratello e la mia, si sono sforzate di farla, questa guerra, con ogni mezzo”.
Luciano Lama l’8 settembre 1943 è in servizio a Borello di Cesena, al comando di un reparto di reclute da addestrare che aveva appena indossato la divisa militare e non era in grado di fronteggiare i tedeschi. In accordo con i compagni di Cesena prende la decisione di sciogliere il campo e di consegnare tutte le armi e le vettovaglie al comitato antifascista, armi che saranno trasportate in montagna e serviranno per le prime formazioni partigiane. Alla chiamata della Repubblica di Salò non si presenterà iniziando la sua vita clandestina.
“Perché abbiamo combattuto contro i fascisti e i tedeschi?”- si chiedeva nell’aprile 1978 in pieno rapimento Moro - “Perché abbiamo rischiato la vita, perduto, nelle montagne e nei crocevia delle nostre campagne, nelle piazze delle nostre città migliaia dei nostri compagni e fratelli, i migliori? Perché siamo insorti, con le armi, quando il nemico era più forte di noi? Abbiamo lottato allora per la giustizia e per la democrazia, per cambiare l’Italia, per renderla libera”. Per renderci liberi, non dimentichiamolo.