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Laura ha manifestato i primi sintomi di mesotelioma pleurico nel 2004, un tipo di cancro la cui prima causa è l’amianto. È morta nel giro di tre mesi. Non lavorava all’Eternit, ma con il marito aveva una bottega nel centro di Casale Monferrato, a una distanza di dieci minuti a piedi dllo stabilimento. Da giovane viveva in una piccola frazione, Rolasco. Per andare e venire dalla città Laura usava la bicicletta. La strada che doveva percorrere passava proprio davanti alla Eternit.
La figlia, Mirella Bertana, ci racconta che gli esami diagnostici sul liquido e sulla pleura avevano evidenziato modifiche inequivocabilmente causate dall'esposizione alle fibre di amianto. “Perché quando si è scoperto tutto, anche le cose che avevano tenute nascoste, si è saputo che i ‘ventoloni’ della fabbrica di notte immettevano all'esterno aria non filtrata e carica di fibre che, seguendo la direzione dei venti, arrivava proprio in centro città".
Laura le ha inalate così le maledette fibre, e come lei tanti altri suoi concittadini, vista la lista delle vittime dell’Eternit: nel primo processo erano più di 2.000 persone. E non è finita, perché nelle ultime settimane altre morti sono finite nel lungo elenco.
Laura era andata in ospedale per un controllo di routine e la dottoressa Daniela Degiovanni (nota per la sua battaglia per le cause di morte da amianto), vedendola sudare senza apparente motivo e riscontrando anche difficoltà nel camminare, dispose subito il ricovero per indagare le cause dei sintomi (e forse già con un sospetto). Da lì l’acqua nei polmoni e gli accertamenti non lasciarono più dubbi, si trattava di mesotelioma pleurico e il decorso della malattia era di difficile previsione. Ma le cause no.
Aveva forti dolori alla schiena, Laura, e la somministrazione del cortisone la portò anche a una pericolosa crisi glicemica. Mirella ci dice che in fondo sua mamma, nella tragedia, è stata persino fortunata, perché questo genere di cancro il più delle volte accompagna la morte con sofferenze atroci. Lei, la sorella, il fratello e il loro papà sono stati accanto a Laura per tutti i tre mesi, assistendo impotenti all’evoluzione della malattia. A supportarli c'era organizzazione laica di volontariato Vitas.
La famiglia si rivolse subito all’Afeva (l’Associazione familiari vittime dell’amianto, che da anni si occupa della contaminazione provocata dalla Eternit), la cui presidente di allora, Romana Blasotti Pavesi, aveva visto morire di mesotelioma molti dei suoi famigliari. Mirella precisa inoltre che anche l'attuale presidente, Giuliana Busto, ha perso il fratello di 33 anni, vittima dell'amianto pur non avendo mai lavorato alla Eternit. Sembra proprio che a Casale non ci sia nessuno che non sia stato coinvolto in questa strage.
Il nome di Laura fu compreso nell’elenco di vittime al primo processo Eternit. Mirella era presente, alle udienze e alle sentenze, e ricorda il dolore nel sentire in aula quel lunghissimo elenco che pareva non finire mai e poi le requisitorie degli avvocati che negavano l'evidenza. Il processo, dopo le sentenze di primo e secondo grado che avevano stabilito la colpevolezza del numero uno della Eternit, Stephan Schmidheiny, in Cassazione aveva visto svanire la speranza di giustizia, perché sui reati era caduta la mannaia della prescrizione.
Nel processo Eternit bis è rientrata solamente una parte delle vittime del primo processo, in tutto 392, per non incorrere nei rischi di prescrizione. In primo grado, lo scorso 7 giugno, la sentenza di colpevolezza e l’imposizione dei risarcimenti. Era stato chiesto l’ergastolo, ma sono stati comminati a Schmidheiny solamente 12 anni di reclusione. Ai parenti delle vittime e a tutte le parti lese non è parso vero di sentire la parola "colpevole".
Anche Mirella, sempre presente anche in tutte le fasi dell’Eternit bis, mi dice di avere provato sollievo nel sentire nell’aula la voce del giudice pronunciare "colpevole". “Ma non basta –dice – perché non è stato riconosciuto l’omicidio doloso, il reato è stato derubricato in omicidio colposo ed è già scattata la prescrizione per alcuni casi"”.
Nel primo processo c'era stata la sentenza di colpevolezza in primo e secondo grado, ma poi la prescrizione aveva avuto la meglio. A pesare, in quel caso, era stata anche la chiusura dell’azienda considerata come evento finale della vicenda. “Ma in realtà non è finito nulla – dice decisa, ma pacata, Mirella -. La fabbrica, dopo il fallimento, fu abbandonata in stato di degrado, con un enorme quantità di amianto, scarti, polverino così che la dispersione continuò. Per la demolizione e la bonifica Comune e Stato hanno speso ingenti somme di denaro. E le persone hanno continuato e continuano a morire".
Mirella ci fa anche un ritratto di Schmidheiny, come ha sentito evidenziare nel dibattimento: “Spesso si è detto che era giovane e inesperto quando ha preso in mano l’azienda di famiglia, ma nel processo è stato dimostrato che era competente in materia di amianto e giurisprudenza, anche a livello internazionale. Siamo alle famose sliding doors: avesse scelto un’altra strada, con i soldi che aveva (è stato anche uno degli uomini più ricchi al mondo) e la fama di filantropo, avrebbe messo in sicurezza lavoratori e cittadini, usando le sue competenze. Siamo rimasti scioccati invece da tutto quello che è emerso".
"Non venivano spesi soldi per la sicurezza - prosegue -: agli operai venivano fornite delle mascherine inadeguate, veniva dato il latte da bere come se bastasse a combattere le fibre di amianto inalate, i lavoratori dovevano spazzare manualmente la polvere perché le motoscope non consentivano una completa pulizia. Cosa molto più grave: veniva distribuito ai dirigenti un manuale con le istruzioni sulle risposte da dare ai giornalisti e agli operai, investendo molte risorse per campagne negazioniste nonostante la consapevolezza della pericolosità della fabbrica".
Mirella dice di essere molto orgogliosa di avere continuato la lotta per sua mamma: "Io ho insegnato come maestra per tutta la vita e so che nulla cade nel nulla. Il mio lavoro con i ragazzi è stato di passare il testimone e vorrei che non si dicesse più ‘Casale città dell’amianto, ma ‘città della lotta contro l’amianto’”.
Ci salutiamo affettuosamente, poi però lei si ricorda di una mia considerazione nella quale dicevo che forse ci stiamo "accontentando" della sentenza da poco pronunciata dai giudici, noi società civile intendo.
Allora mi scrive un messaggio: “È chiaro che è stata data solo ‘un poco’ di giustizia: 12 anni per un elenco così spaventoso di vittime sembra una condanna davvero ridicola. E lo sarebbe anche per una sola unica persona, dato il valore di ogni singola vita. E poi con tutte le vittime per cui è scattata la prescrizione... Ciò che ci sembra importante è che è sia stata accolta la dimostrazione che Schmidheiny ha la responsabilità penale di non aver messo in atto condizioni di sicurezza per la tutela dei lavoratori e di aver tenuto una condotta illegale. Certo l'amarezza, la rabbia e il senso di ingiustizia senza fine per chi è stato escluso c'è, forte e condiviso e sofferto. Non smetteremo di lottare ancora”.