PHOTO
Dichiarazioni e messaggi comunicano non solo attraverso le parole scritte o parlate ma anche attraverso i silenzi e le omissioni. Non indugeremo oltre nella critica al ricorso, da parte della presidente del Consiglio e del neo ministro Valditara, alla parola “merito” e al debole tentativo di legittimarla con il richiamo alla nostra Costituzione (art. 34) del 1948.
Come ha scritto di recente Alberto Alberti, la parola merito nella nostra Costituzione trova ragione in quel contesto di drammatica povertà e ignoranza che segnava la vita di un paese che doveva risollevarsi dalla tragica eredità dello stato monarchico e fascista: “Solo il 43% della popolazione aveva conseguito il titolo della licenza di quinta elementare, il 34% non aveva alcun titolo di studio e il 13% non sapeva neanche mettere la propria firma” (dati Censis 1951).
Senza lasciare indietro nessuno
“Merito” era pertanto un invito, una spinta a rialzare la testa e prendere in mano il futuro della Repubblica che aveva bisogno di nuove intelligenze e di un più alta e diffusa alfabetizzazione per rendere possibile la rinascita del Paese. In settant’anni, la scuola pubblica ha sconfitto l’analfabetismo di milioni di persone e ha dato vita alla scuola elementare più apprezzata in Europa. Nella scuola dei più piccoli, dal ’68 arricchita dalla scuola dell’infanzia, si è arrivati al miglior risultato possibile: portare tutti al completamento dei cinque anni di scuola senza lasciare indietro nessuno e raggiungendo traguardi di qualità.
La scuola media, che finalmente, dopo il ’62, rese unico il percorso tra gli 11-14 anni, ha impiegato quasi quarant’anni per raggiungere un esito analogo: portare tutti o quasi a completare quella scuola che ancora negli anni Sessanta era preclusa alla maggioranza dei ragazzi. Un faticoso straordinario percorso verso una scuola inclusiva, capace di andare al di là della didattica speciale, riservata agli alunni con disabilità, per “fare spazio” a tutte le diversità, accoglierne la bellezza, attraverso una revisione profonda e una messa in discussione della prassi pedagogica, del ruolo del docente, dei valori culturali.
Ci sono volute lotte, impegno straordinario di tanti insegnanti, testimonianze indimenticabili come quella di Don Milani. Tacere tutto questo quando si apre un nuovo ciclo di politica scolastica, significa non riconoscere il lavoro enorme che è stato fatto e da chi è stato fatto, significa non capire da dove bisogna ripartire, consapevoli anche dei limiti, certo.
Le infrastrutture erano e sono ancora in troppe zone del Paese, soprattutto al Sud, vecchie e improponibili come ambienti di apprendimento; la formazione del personale docente avrebbe meritato e merita ben altra cura e investimenti. Il precariato è l’evidenza della non programmazione del fabbisogno dei docenti e della marginalità delle politiche scolastiche che continuano all’insegna dei tagli.
I limiti che ancora restano
Permangono barriere strutturali, culturali, comunicative che impediscono la piena accessibilità al diritto allo studio, senza adeguati investimenti nelle figure professionali di supporto, quali gli assistenti all’autonomia o i mediatori linguistici; ne è prova la recente esperienza di accoglienza di migliaia di studenti ucraini che le scuole hanno affrontato in solitudine con le proprie generose, qualificate, ma insufficienti risorse interne.
Il sistema resta bloccato e non riesce a raggiungere come dovrebbe il territorio dell’istruzione degli adulti e della formazione continua, oggi irrinunciabili. E certamente si può e si deve anche discutere se questo straordinario impegno di tanti insegnanti non sia stato esente da limiti proprio rispetto agli obiettivi che essi stessi si proponevano.
Questi limiti sono ancora oggi più che evidenti nella scuola secondaria superiore dove restano livelli troppo alti di dispersione, abbandono, esiti finali spesso non soddisfacenti. I nostalgici della scuola per pochi, lamentano l’abbassamento del livello degli studi. Per loro la scuola, i suoi ordinamenti, i programmi, sono “giusti”: sono invece “sbagliati” quegli studenti che non raggiungono gli obiettivi e magari sono stati persino promossi grazie a una permissiva cultura “progressista”.
Cambiare la scuola
A pochi di loro viene in mente che forse, per riuscire a realizzare obiettivi alti di apprendimento con ragazzi che non hanno alle spalle il supporto di una famiglia (di un ambiente, un territorio, eccetera) bisogna proprio cambiare la scuola, i contenuti dell’insegnamento e le modalità didattiche con cui avviene il processo di insegnamento/apprendimento. Proprio come è riuscita a fare la scuola primaria dagli anni ’70.
I nostalgici utilizzano oggi la parola merito per evocare la scuola che seleziona e poiché non possono respingere le generazioni che avanzano, sono pronti anche a tollerare l’insuccesso, anzi lo nascondono dietro una cultura compassionevole che riconosce le difficoltà e le trasforma in disagio da compensare, curare, sostenere. Chi non riesce ha un disturbo di apprendimento. Loro sono il problema, non la scuola. Queste sono le nuove frontiere, più sfumate e ingannevoli, dell’esclusione.
La parola inclusione è la grande omissione, il silenzio più eclatante che si coglie nelle dichiarazioni del governo che si è insediato. L’assenza di questa parola rende inequivoco il significato attuale della parola “merito” perché l’inclusione non tollera demeritevoli: nessuno può e deve sentirsi escluso. Ed è l’inclusione il terreno dei prossimi anni.
Ce lo chiede l'Europa
Lo prevede già l’Unione europea che ha compreso molto bene che l’ampiezza della scolarizzazione dei giovani e i tassi di passaggio alle scuole secondarie superiori, rendono finalmente possibile la fase successiva: lavorare sui limiti di questo grande risultato democratico per portarlo ai livelli più alti anche nella qualità degli esiti formativi e non solo degli accessi. In buona parte anche i fondi del Pnrr in via di attribuzione alle scuole, stanno dentro questo quadro e sono perciò importanti.
Inclusione è aprire una sperimentazione diffusa per vedere quali debbano essere le caratteristiche che devono avere gli ambienti di apprendimento capaci di offrire a ciascuno la possibilità di realizzare i migliori esiti possibili e le proprie aspettative di vita. Da questa finalità decisiva nasce la nostra proposta di estendere l’obbligo scolastico, a partire dalla scuola dell’infanzia fino ai 18 anni.
Il ruolo dello Stato...
Questo obiettivo sarà possibile soltanto con un nuovo protagonismo dello Stato, con investimenti rilevanti nel sistema sul terreno delle infrastrutture, dei meccanismi di formazione e reclutamento del personale, su una amministrazione centrale e periferica di qualità, sul rilancio della partecipazione sociale, sul riconoscimento del lavoro nella scuola. Ma soprattutto richiederà una mobilitazione forte e consapevole di chi sceglie di collocarsi su questo nuovo orizzonte in cui la scuola torna ad essere decisiva per la storia e la vita delle persone, per una speranza di democrazia più avanzata.
L’obbligo scolastico dai 3 ai 18 anni richiederà un ripensamento radicale dei contenuti dell’insegnamento, delle modalità di insegnare, della stessa struttura complessiva della scuola secondaria superiore: un grande sforzo di ricerca, fantasia, creatività e cultura di cui dovranno essere protagonisti soprattutto gli insegnanti attraverso una inedita esperienza di autonomia professionale praticata in una nuova dimensione cooperativa del lavoro. Un’impresa molto delicata e complessa perché non sarà facile superare l’eredità di un modello che porta ancora oggi la radice elitaria del passato e che lascia molti insegnanti nella tranquillizzante esecutività individuale della propria cattedra.
... e quello del sindacato
Non basteranno nuove norme. Il cambiamento esige un grande impegno e rinnovamento culturale, didattico, professionale di chi nella scuola lavora. Noi saremo parte di questo processo, mettendo a servizio di questo obiettivo la nostra esperienza, la nostra cultura e ricerca professionale, la forza di un sindacato che pone la conquista dei diritti della persona come fondamento delle proprie scelte nell’ambito dell’istruzione. Siamo consapevoli di affrontare una sfida difficile.
L’Europa, e con l’Europa il nostro Paese, deve farsi avanguardia e tradurre in azioni politiche i valori della solidarietà tra i popoli e delle pari opportunità, contrastando le crescenti diseguaglianze e quelle logiche di mercato fondate sulla competizione che rischiano, anche nel mondo della scuola, di lasciare indietro chi non ce la fa. Motivo in più per non cedere, con la consapevolezza che il futuro della libertà e del lavoro è nella conoscenza assicurata ad ogni persona. L’inclusione è l’orizzonte dei nuovi diritti.
Francesco Sinopoli, segretario generale Flc Cgil
Dario Missaglia, presidente nazionale Proteo Fare Sapere